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Visualizzazione dei post da giugno, 2024
C'ERA UNA VOLTA, IL TEATRO DELLE VITTORIE! Nell’estate televisiva in cui le menti offuscate dall’afa si ridestano, a sera, ai ricordi di  Techetecheté , ci capiterà di rivederlo. Nelle sue splendide scenografie, dal bianco e nero al colore, nei conduttori in abito da sera, da Lelio Luttazzi a Fabrizio Frizzi, negli acuti di Mina, nella diplomazia di Pippo Baudo, nelle mille luci di una facciata, quella di uno dei teatri più celebri della Rai, che era essa stessa un inno al divertimento del sabato sera. Da qualche tempo, quell’ingresso, per anni abbandonato al degrado estetico, è stato restaurato ma “in povertà”, lontano dai fasti di una storia cominciata ottant'anni fa, nel 1944, quando il Teatro delle Vittorie, sito in via Col di Lana, a Roma, veniva inaugurato nientepopodimeno che da una rivista di Totò e Anna Magnani.   Il "luminoso" ingresso del Teatro delle Vittorie.   Il delle Vittorie era un grande teatro specializzato negli spettacoli di varietà e rivista. Bal
MATURITÀ: SERENA CONSAPEVOLEZZA Ci siamo. Da questa mattina centinaia di studenti armati di vocabolari, penne e buona volontà hanno dato inizio alle “ultime danze” prima della agognata libertà. Ebbene sì, non credo di essere stato (ormai tredici anni fa) l’unico studente ad aver avvertito quel preciso sentore di liberazione con la conclusione di un percorso di formazione che obbliga ore e ore tra i banchi dai 6 ai 19 anni, dalle elementari alle superiori. Certo, con graduali difficoltà e differenti modalità. Ma si tratta sempre di un atto coercitivo, di un domicilio coatto, di un obbligo legale e morale. Lo so, sto utilizzando parole probabilmente esagerate. Tuttavia consone a chi vi sta scrivendo, che ha sempre considerato il suo vecchio edificio delle scuole materne, elementari e medie una sorta di carcere di massima sicurezza.  Ironia voluta a parte, credo che tra tutti i ragazzi in corsa agli esami di Stato, oltre alla comprensibile ansia, alle paure, alla fatica di giornate e nott
ADIEU , ANOUK! Il suo primo piano, con quegli occhioni grandi, malinconici, rimarrà per sempre tra i fotogrammi più belli del cinema. E non solo quello in bianco e nero, da Fellini a Lelouch, che nel 1966, a fianco al bel Jean-Louis Trintignant la consacrò alla fama internazionale in una storia d’amore tormentata e sfuggente, durata - cinematograficamente parlando -cinquant’anni e per ben tre film, l’ultimo nel 2019, “I migliori anni della nostra vita”, dove Anouk Aimée, ottantasettenne, conservava quel fascino e quella sensualità che l’hanno sempre contraddistinta.  Dalla danza al teatro, dal cinema d’oltralpe a quello italiano, Anouk Aimée ha attraversato decenni, costumi, stili con una innata eleganza e con quella bellezza che, col passare del tempo, acquistò anche la malia della senilità. Due anni fa, in occasione dei suoi novant’anni, scrissi un ampio articolo (lo trovate qui  https://ilrestodelmarino.blogspot.com/2022/04/buon-compleanno-anouk-sensualita-e.html ) in cui parlai di
DORIS DOWLING, IL FASCINO DI UNA METEORA Maliziosa e austera. Fragile e decisa. Dai palcoscenici di Broadway al teatro d’avanguardia, dall’amicizia con Cesare Pavese (innamorato perdutamente di sua sorella “Connie”, sua ultima musa) alla fama in Italia a seguito del successo accanto a Vittorio Gassman e Silvana Mangano in “Riso amaro” di De Santis.  Una meteora, quella di Doris Dowling nel cinema italiano, eppure in grado di lasciare una scia, un segno della sua presenza. Una vita vissuta tra alti e bassi, tra forti emozioni e dispiaceri, fino alla morte, sopraggiunta vent’anni fa, il 18 giugno 2004. Al link di seguito l’ampio articolo che le dedicai nel centenario della nascita. https://ilrestodelmarino.blogspot.com/2023/05/dowling-occhi-di-cinema-fiera-e-austera.html
LE ULTIME “ PAROLE ” DI FRANCO DI MARE L’ho letto per ben due volte, con calma. Volevo assimilarlo per bene, e soprattutto volevo godermelo. Non ce ne saranno altri, purtroppo. Ma una cosa è certa: non poteva scrivere qualcosa di più bello, di più autentico e intimo. A stupire subito, fin dalle prime pagine, è la lucidità, la serenità con cui Franco Di Mare parla di qualcosa che lo tocca da vicino. Da un lato, la sua esperienza da inviato di guerra, attraverso storie raccolte sul campo. Dall’altro, la malattia, il mesotelioma che ce lo ha portato via appena un mese fa. “ Le parole per dirlo ”, già dal titolo, rivela il suo intento. Vuole essere un modo per raccontare ciò che l'autore ha vissuto, ciò che sta vivendo nel momento in cui scrive. E lo fa attraverso delle parole chiave, come in un « dizionario esistenziale » che possa tornare utile nei momenti difficili. La prima parola è “fibra”, la fibra d’amianto che, silenziosamente, in punta di piedi, si è insinuata dentro di lui pa
CIAO, FRANÇOISE! Quando i cuori battevano a 45 giri, la sua voce sottile, soavemente francese, cantava di giovani, di amori, turbamenti adolescenziali, desideri, sentimenti non ricambiati, e lo faceva con dolcezza. Perché è vero che la generazione di Françoise Hardy, quella Yé-Yé degli anni ’60, quella dei jeans e delle minigonne, dei capelloni e delle ragazze con i capelli alla “maschietta”, sognava un mondo diverso, lottava contro le convenzioni e le imposizioni dei “Matusa” - come venivano definiti i padri e le madri nel Belpaese -, ma è anche vero che nella profondità del loro animo, non erano nient’affatto diversi dai loro genitori: pieni di dubbi, paure e sentimenti inespressi.  La bella Françoise, con le sue delicate "corde” , con quei ritornelli orecchiabili e musicalmente perfetti, parlava di ragazzi che passeggiavano a due a due, che vivevano amori tormentati, che soffrivano perché non si sentivano compresi, che sognavano una vita diversa, più libera. Ragazzi combattivi
BERLINGUER, UN UOMO E I SUOI VALORI Lucido, fermo, accorato, visibilmente affaticato. La sera del 7 giugno 1984, sotto lo stemma del Partito comunista italiano, in piazza della Frutta a Padova, pochi giorni prima delle elezioni europee, Enrico Berlinguer teneva il suo ultimo e indimenticato comizio. Quella sera un ictus si impossessò del suo corpo, portandoselo via quattro giorni dopo, l’11 giugno di quarant’anni fa, a causa di una emorragia cerebrale.  Se ne andava così un uomo dalla schiena dritta, un oratore capace, un politico brillante e amato. Un “compagno” che liberò il Pci dall’egemonia di Mosca, facendosi promotore di una politica di stampo democratico intrisa di grandi ideali e valori. Valori che lo portarono al dialogo con la Democrazia cristiana e col presidente Aldo Moro, un amico prima che un rivale (e mai un nemico). Ideali che lo spinsero a battersi a favore dei valori della Costituzione e del benessere del popolo. Valori di un uomo che lottava per uno Stato libero, egu
IL “MITICO” CAPANNELLE Sono trascorsi cinquant’anni dalla sua morte - era il 9 giugno 1974 -, ma essendo stato, a mio parere, un mito, la sua presenza è ancora viva. Portava il nome di un grande patriota risorgimentale, e a suo modo anch’egli fu un “piccolo” eroe. Ma alle sue “virtù”, alla sua simpatica figura, ai suoi ruoli iconici il nome che si è sempre associato è quello del personaggio che lo tirò fuori dall’ombra consegnandolo per sempre alla storia cinematografica nazionale.                                                                                                                               Carlo Pisacane, classe 1889, napoletano proprio come l’omonimo patriota della “Spedizione di Sapri”, sarebbe rimasto senza dubbio uno dei tanti piccoli-grandi attori del teatro partenopeo se non avesse incontrato il cinema. O meglio, se il Cinema, quello con la “C” maiuscola, sotto le spoglie di Mario Monicelli, non si fosse imbattuto in quell’ometto gracile, sdentato, dalla testa cal
MASSIMO TROISI: COSÍ COME VIENE, BENE “ ‘A vita s’adda piglia’ comm’ vene ”. E lui “come veniva” se la prendeva quella vita, anche se gli usciva sempre male (lui utilizzava una espressione più colorita, ma tutti la ricorderanno). Dalla finzione cinematografica alla realtà, Massimo Troisi, la sua vita, l’accettò così com’era. Il successo inaspettato (ma prontamente meritato), la fama nazionale da “La Smorfia” con Arena e Decaro a “Non Stop!” ai film iconici, da “Ricomincio da tre” a “Credevo fosse amore…”, l’amore del pubblico e quello delle sue donne - molte rimasero “impigliate” tra i ricci della sua chioma malinconica.  E così, stoicamente, accettò anche la malattia. Quei problemi di cuore che scalfirono una giovane esistenza costellata da cose belle ma conclusasi con un triste epilogo. Ma se è vero che la vita va presa come viene, è anche vero che essa va onorata, così com’è. E Massimo Troisi lo ha fatto, fino alla fine. Prima che il suo cuore smettesse di battere quel 4 giugno del
MANFREDI, UNA LEGGENDA CHIAMATA “NINO” Ricordo perfettamente quel 4 giugno 2004. Appena rientrato da una bellissima gita scolastica appresi la notizia che ormai, da qualche tempo, tutti si aspettavano. L’ictus un anno prima, poi il degenerare della malattia negli ultimi mesi e quel caldo giorno di giugno la terribile notizia: Nino Manfredi non c’era più. Per me fu un grande dispiacere.  Avevo solo dodici anni, ma Manfredi era già diventato il mio eroe. Nei panni di Nino Fogliani, il brigadiere di polizia in pensione che andava (svogliatamente) a pescare per tenersi a distanza dalle indagini del suo ex Commissariato, diretto dalla figlia Linda (Claudia Koll), ma si trovava irrimediabilmente sulla pista giusta per risolvere il caso. L’ultima grande prova di un attore dalla vita straordinaria e rocambolesca. L’infanzia povera in Ciociaria, l’esperienza del sanatorio per guarire dalla tubercolosi, la laurea in Legge per far contento il padre, l’Accademia d’arte drammatica, gli esordi in te
CIAO, PHILIPPE! Tutti lo ricorderanno come Yanez, il fedele compagno della “tigre” Sandokan (Kabir Bedi) dalle pagine di Salgari allo sceneggiato di Sollima. Molti, ancora, lo rammenteranno ladro-gentiluomo come il “professore”, leader di una banda di criminali internazionali in “Sette uomini d’oro” di Marco Vicario. Altri, invece, lo ricorderanno canuto e barbuto nei panni di Leonardo Da Vinci in un altro grande sceneggiato Rai.  Personalmente lo ricordo calvo, invecchiato, pieno di grinta e con la “erre” da francese parigino nei panni di vescovo di Terence Hill in abito talare, altrettanto aitante da lanciarsi da un aereo col paracadute a settant’anni suonati. Una passione che Philippe Leroy riscoprì in tarda età, dopo una giovinezza da sottotenente dei paracadutisti nell’esercito francese, tra la Legione Straniera e la guerra d’Algeria, prima di scoprire il cinema e di innamorarsene, dando anche lì prova delle sue doti fisiche e del suo fascino d’oltralpe, sebbene sia stata l’Itali
GIUSEPPE GUIDA, PASSIONE MAESTRA Un maestro, nel senso più “elementare” del termine. Perché prima che professore, preside, sindaco democristiano, storico e scrittore, Giuseppe Guida è stato, a mio avviso, un maestro. E non solo perché si diplomò allo storico Istituto Magistrale di Lagonegro. Giuseppe Guida possedeva infatti le qualità che - sempre a mio parere - dovrebbero essere proprie di un vero insegnante elementare (e non solo): empatia, sguardo lungo, curiosità, intelligenza. E di intelligenza “Peppino” Guida diede dimostrazione fin da bambino.  Nato il 17 settembre 1914, da proprietari terrieri del Farno, zona rurale alle porte di Lagonegro (Pz), Peppino era terzo di sette figli e i genitori, per permettergli di studiare, lo affidarono agli zii materni, commercianti, che si occuparono della sua istruzione. I loro sacrifici non furono vani e infatti Peppino Guida diede prova di grandi capacità intellettive e non solo. Accanto alla passione per gli studi umanistici, che lo conduss