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LE ULTIME “PAROLE” DI FRANCO DI MARE


L’ho letto per ben due volte, con calma. Volevo assimilarlo per bene, e soprattutto volevo godermelo. Non ce ne saranno altri, purtroppo. Ma una cosa è certa: non poteva scrivere qualcosa di più bello, di più autentico e intimo. A stupire subito, fin dalle prime pagine, è la lucidità, la serenità con cui Franco Di Mare parla di qualcosa che lo tocca da vicino. Da un lato, la sua esperienza da inviato di guerra, attraverso storie raccolte sul campo. Dall’altro, la malattia, il mesotelioma che ce lo ha portato via appena un mese fa. “Le parole per dirlo”, già dal titolo, rivela il suo intento. Vuole essere un modo per raccontare ciò che l'autore ha vissuto, ciò che sta vivendo nel momento in cui scrive. E lo fa attraverso delle parole chiave, come in un «dizionario esistenziale» che possa tornare utile nei momenti difficili. La prima parola è “fibra”, la fibra d’amianto che, silenziosamente, in punta di piedi, si è insinuata dentro di lui palesandosi con una banale fitta tra le scapole. Quella fibra che «scivolava serena nel cielo di Sarajevo», dove i bombardamenti «l’avevano liberata dalla prigione di Eternit e cemento dentro cui era stata costretta da anni di realismo socialista»  e  «spinta dai venti dei Balcani, volava finalmente libera». Libera di uccidere, come il fucile di precisione di un cecchino, ma senza far rumore. 





Forse proprio lì, a Sarajevo, nel 1992, Franco Di Mare iniziò quel lungo, silenzioso calvario che lo ha portato, trent’anni dopo, a fare i conti con un ospite indesiderato. Quella fibra sottile che unisce il senso di tutte le altre parole che seguono, e che nel libro raccontano cosa si prova, cosa accade nel momento in cui bisogna far fronte alla dura e triste realtà: che sia una folle guerra o una malattia che è, inesorabilmente, una condanna senza possibilità d’appello. Ciò che avviene in questi casi, racconta Di Mare, dopo un iniziale e giustificabile sconforto, è un cambiamento repentino di punti di vista. La vita appare diversa, più bella e preziosa. Forse proprio perché, quando una speranza di salvezza non c’è, essa appare ancora più fugace di quanto non lo sia già. E così, l’ “assenza”, l’estraniazione da se stessi e dalla realtà, come quella di due bambini di un orfanotrofio di Kabul, che consumavano un pasto senza neanche curarsi o incuriosirsi di una grossa cinepresa televisiva che li stava riprendendo, si trasforma in “resilienza”, come quella di due anziani coniugi che nella Sarajevo distrutta dalla guerra continuavano a recarsi ogni giorno al mercato, pur non potendo acquistare nulla per mancanza di soldi, solo per mantenere una parvenza di normalità. La stessa normalità a cui si aggrappa con forza chi vive una guerra “dentro”, come una malattia. Casi in cui ad assumere un valore speciale è un’altra parola, “memoria”. La memoria, lo scrigno dei dolci ricordi che ravvivano un presente triste e doloroso. Come gli afrori delle madeleine di Marcel Proust. Come il profumo delle ciliegie rosso cupo di Darko, che al mercato di Sarajevo riportavano alla mente i colori e i sapori della normalità. O come «la melodia allegra dell’olio in attesa» nella casa di Mergellina, mentre la madre di Franco Di Mare preparava le melanzane per la parmigiana cantando “Luna rossa”. E quando si è in guerra «fuori e dentro di noi», a fare la differenza è anche l’ “amore”. L’amore giovane, appassionato e senza riserve di Admira e Bosko, in fuga verso la libertà, distrutto dalla insana mente di un cecchino. L’amore per il mondo, per le sue piccole bellezze spesso impercettibili all’occhio “sano”, che chi combatte una battaglia con se stesso inizia a cogliere stupendosi di non averlo fatto prima. Oppure, ancora, l’amore di due anziani neo sposi, malati senza speranza di guarigione, uniti e felici come se avessero tutta una vita davanti, perché in fondo «apparterremo per sempre a chi ci regalerà l’ultimo sorriso». Sotto la parola “storia”, invece, dopo aver narrato di una donna che, per inseguire quel che credeva fosse amore, si ritrovò blindata a Sarajevo, in attesa di poter far ritorno dal marito e dalle figlie a Zagabria, Di Mare rivela che anche lui, quella malattia appartenente al novero delle “innominabili”, se l’era in effetti andata a cercare. Ma non per follia o per precisa volontà: per amore e dovere nei confronti della sua professione. Dai Balcani al Kosovo, dalla guerra del Golfo all’Afghanistan e all’Iraq, il suo lavoro di inviato di guerra l’ha portato dritto dritto al confine tra la vita e la morte, ma con la consapevolezza di avere alle spalle il supporto, la vicinanza e l’affetto di un’azienda, la Rai, che seppur in tempi in cui il mondo del giornalismo di guerra in Italia era ancora lontano dalla consapevolezza dei rischi e delle precauzioni che un mestiere del genere comporta, ha sempre dimostrato la sua vicinanza al proprio dipendente. Cosa che, invece, da parte di alcuni dirigenti della Rai, è venuta a mancare proprio quando Di Mare ha appreso di aver contratto il tumore sul campo, mentre si preoccupava di raccontare, con zelo e passione, quanto accadeva al di fuori dei nostri confini. Ma pur non nascondendo una certa amarezza, e conservando lucida riflessione, sottolinea come tante persone provenienti proprio da quella azienda per cui ha speso le sue energie per quarant’anni fanno parte della schiera di amici a cui è dedicato l’ultimo capitolo. “Amici”, infatti, è l’ultima parola che Franco Di Mare ci lascia in consegna, in quelli che in un libro qualunque dovrebbero essere dei “dovuti” ringraziamenti, e che invece in queste pagine diventano una  dichiarazione d’affetto sincera verso chi gli è stato accanto sempre. Prima di tutto i suoi affetti più cari: la figlia Stella, «la persona che ha dato senso e scopo»  alla sua vita, i cui occhi incrociò in un orfanotrofio di Sarajevo,  il suo amore Giulia (sposata pochi giorni prima della sua scomparsa), suo fratello Gino e le sorelle Lucia e Sara. Arrivando, così, alla fine, ci si accorge di voler tornare indietro, di ricominciare a leggere daccapo. O almeno, a me è successo. Avrei potuto terminarlo in pochi giorni, invece me la sono presa comoda. Di più, sono ritornato a leggerlo e non è escluso che lo faccia ancora. Perché un libro così voluto, ma anche sofferto, quando si è consapevoli di non avere più tempo per sperare, non lo si scrive a cuor leggero. Io, di sicuro, non ne sarei capace. Franco Di Mare, invece, è riuscito a farlo. Ha esorcizzato la paura come ha fatto per tanti anni sui fronti di guerra, raccontando ciò che vedeva. Qui però ha fatto molto di più. Tra il racconto della sua malattia, della scoperta di questo male oscuro, e quello delle tante storie raccolte durante i suoi reportage, con uno stile chiaro, lineare, a tratti anche poetico, che unisce al talento del cronista l’abilità del narratore, Franco Di Mare ci ha svelato una parte di sé, molto intima, fragile, profondamente umana, che in realtà non ci ha mai nascosto del tutto ogni qual volta si è trovato a raccontare quanto di più brutto, crudele e atroce accade nel mondo. Ma questa volta ha raccontato se stesso, ci ha aperto il suo cuore. Ed è per questo che queste ultime, bellissime, profonde e sincere “parole” assumono un valore immenso.


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