Passa ai contenuti principali

DON CARLO CASCONE, IL RICORDO DI UN SORRISO DOLCE


Braccia dietro la schiena, busto leggermente inclinato in avanti e su, un piede dopo l'altro, per la salita di Sant'Antuono, col basco calcato in testa e la tonaca svolazzante. Me lo ricordo così, don Carlo Cascone, quando la mattina, con la pioggia o con il sole, veniva a celebrare la messa feriale a pochi passi da casa mia, nella chiesetta di Sant'Antuono. Ci incontravamo sempre: io andavo a scuola e lui usciva dalla chiesa, a messa finita, fermandosi a parlare con i suoi parrocchiani, tra cui c’erano anche le mie nonne, Rosa e Assunta. Classe 1920, nativo di Lettere, vicino Napoli, don Carlo ha trascorso per oltre cinquant’anni la sua vita, terrena, spirituale e missionaria, a Lagonegro, in provincia di Potenza, dove è stato ordinato sacerdote nel 1943. 



Monsignore per merito e per grazia dei suoi fedeli, prete saggio, generoso e popolare, devotissimo della Madonna di Sirino, al cui seguito, per decenni, è salito sulla vetta del Monte omonimo, celebrando l’eucarestia la terza domenica di giugno, il 5 agosto (solenne festività di Maria ad Nives) e la terza domenica di settembre. In paese, invece, ha legato per sempre la sua immagine e la sua parola alla chiesa di Sant’Antuono e a quelle della Madonna delle Grazie, vicina al Seggio, e della Madonna Assunta. La sua simpatia e le sue omelie, semplici, ingenue, anacronistiche oggi, erano lo specchio di un uomo che aveva fatto della fede, quella autentica, strumento di coesione e di amicizia. Perché don Carlo è stato un amico per molti, e anche per il sottoscritto. Come già detto, mi conosceva fin da bambino, ma la nostra amicizia è nata quando io ero poco meno che adolescente. Al tempo, ogni domenica alle 9, partecipavo alla messa nella Chiesa della Madonna delle Grazie. Una mattina d’estate, mentre si trovava seduto su una panchina nella Villa Comunale, vedendomi passare mi chiamò a sé e mi disse: «Io ti vedo sempre in chiesa, che stai dietro, in piedi. Perché non vieni sull’altare a darmi una mano?». Nonostante fossi sempre stato molto timido, quella volta non ebbi esitazione. Iniziò così la mia esperienza da chierichetto, tra la Chiesa delle Grazie e quella di Sant’Antuono, dove ho servito perfino la messa in latino, che don Carlo officiava tutti i martedì. Ho anche avuto il privilegio di essere sull’altare con lui, con l’allora vescovo monsignor Francesco Nolé, un giovane diacono Mario Radesca e il francescano padre Raffaele Di Filippo nella solenne eucarestia del 17 gennaio, giorno della Festa di Sant’Antonio Abate, tripudio di canti e balli davanti alla Castedda, tra guaiti di cani, miagolii di gatti e nitriti di cavalli in attesa della benedizione. Don Carlo mi fece anche un regalo speciale: una benedizione “urbi et orbi” al mio motorino, un Piaggio SÍ, sul sagrato di Sant’Antuono, davanti a un nutrito gruppo di suore e parrocchiani in silenziosa e sentita preghiera. Quegli anni, trascorsi con don Carlo tra sagrestie e altari, non li ho mai dimenticati. Molte persone che partecipavano a quelle celebrazioni, vedendomi così felice in tutta la mia altezza (a quattordici anni aveva già superato il metro e settantacinque) e attento e preciso nelle mie mansioni, credevano che io fossi un seminarista, e davanti al mio diniego avanzarono l’ipotesi che, col tempo, avrei scelto la strada del sacerdozio. Le cose, naturalmente, sono andate in maniera diversa, ma devo dire che allora avevo preso con grande impegno e serietà quel compito datomi da don Carlo, e quell’esperienza mi regalò una grande serenità interiore che non ho mai più provato. Crescendo, però, vedendomi in quella veste bianca troppo corta, e col timore di essere ormai fuori luogo cominciai a provare vergogna nel fare il chierichetto. Decisi allora di non continuare e credo che don Carlo, in cuor suo, ci restò un po’ male. Ma rimasi comunque uno dei suoi ferventi fedeli, sia all’Assunta che a Sant’Antuono, in occasione della grande festa, dove negli ultimi tempi, per via dell’età e di qualche acciacco, arrivava accompagnato in auto e non più a piedi. La sua forza, però, il suo frasario semplice, pulito e sempre calzante, sono rimasti inalterati fino alla fine. L’anima di don Carlo, volata via appena un anno dopo le solenni celebrazioni per il suo settantesimo anno di sacerdozio, continua ad aleggiare nelle “sue” chiese. Nella Chiesa dell’Assunta, al suono della campanella che annuncia l’inizio della messa, sembra ancora di vederlo spuntare dalla sagrestia e salire sull’altare, col suo sguardo sornione e il sorriso dolce. Un sorriso difficile da dimenticare per chi l’ha conosciuto. Un sorriso di fede, di speranza e di serena consapevolezza. Un sorriso che don Carlo mi ha regalato tante volte e che, a dieci anni esatti dalla sua scomparsa, continua a farmi compagnia, tra i ricordi più belli.


A.M.M.

Commenti

Post popolari in questo blog

GIUSEPPE GUIDA, PASSIONE MAESTRA Un maestro, nel senso più “elementare” del termine. Perché prima che professore, preside, sindaco democristiano, storico e scrittore, Giuseppe Guida è stato, a mio avviso, un maestro. E non solo perché si diplomò allo storico Istituto Magistrale di Lagonegro. Giuseppe Guida possedeva infatti le qualità che - sempre a mio parere - dovrebbero essere proprie di un vero insegnante elementare (e non solo): empatia, sguardo lungo, curiosità, intelligenza. E di intelligenza “Peppino” Guida diede dimostrazione fin da bambino.  Nato il 17 settembre 1914, da proprietari terrieri del Farno, zona rurale alle porte di Lagonegro (Pz), Peppino era terzo di sette figli e i genitori, per permettergli di studiare, lo affidarono agli zii materni, commercianti, che si occuparono della sua istruzione. I loro sacrifici non furono vani e infatti Peppino Guida diede prova di grandi capacità intellettive e non solo. Accanto alla passione per gli studi umanistici, che lo conduss
C'ERA UNA VOLTA, IL TEATRO DELLE VITTORIE! Nell’estate televisiva in cui le menti offuscate dall’afa si ridestano, a sera, ai ricordi di  Techetecheté , ci capiterà di rivederlo. Nelle sue splendide scenografie, dal bianco e nero al colore, nei conduttori in abito da sera, da Lelio Luttazzi a Fabrizio Frizzi, negli acuti di Mina, nella diplomazia di Pippo Baudo, nelle mille luci di una facciata, quella di uno dei teatri più celebri della Rai, che era essa stessa un inno al divertimento del sabato sera. Da qualche tempo, quell’ingresso, per anni abbandonato al degrado estetico, è stato restaurato ma “in povertà”, lontano dai fasti di una storia cominciata ottant'anni fa, nel 1944, quando il Teatro delle Vittorie, sito in via Col di Lana, a Roma, veniva inaugurato nientepopodimeno che da una rivista di Totò e Anna Magnani.   Il "luminoso" ingresso del Teatro delle Vittorie.   Il delle Vittorie era un grande teatro specializzato negli spettacoli di varietà e rivista. Bal