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Visualizzazione dei post da luglio, 2024
K2 1954: IL MIRACOLO ITALIANO L’Italia degli anni ’50 era povera, umile, democristiana e votata alla santità. Per la semplice ragione che sopportare gli stenti, la fame, i dolori e le sofferenze in un paese costretto alla gogna dai vincitori di una guerra (la Seconda guerra mondiale) che il popolo aveva subito più che voluto, significava possedere la pazienza, la forza e forse anche la rassegnazione stoica di un santo. Proprio per questo motivo, un popolo sì fatto non osa non gridare al miracolo nel momento in cui l’impossibile diventa possibile. Quando, cioè, l’uomo sfida le leggi della natura, della fisica, della gravità, prima di quelle della fisiologica paura, per portare a termine un’ impresa destinata a cambiare la storia del nostro Paese.  Il 31 luglio 1954, sulla vetta del K2, la seconda montagna più alta del mondo, il Tricolore sventolava gagliardo e orgoglioso, portato in cima da due dei tredici alpinisti italiani che, da due mesi e mezzo, avevano dato inizio a quella che sem
SERGIO FIORENTINI, LA VOCE DELL’ANIMA Per tutti - compreso il sottoscritto - è rimasto semplicemente Alfio Cacciapuoti, il brigadiere ironico, intelligente e riflessivo braccio destro del “maresciallo d’Italia” Gigi Proietti. Ma relegare Sergio Fiorentini nel campo degli attori di una serie di grande successo (e ottima fattura) della Rai sarebbe riduttivo e ingiusto. In primo luogo perché quello di Cacciapuoti non fu il suo unico ruolo televisivo, partendo dai gloriosi sceneggiati per arrivare alle moderne fiction. In secondo luogo perché la principale qualità di Sergio Fiorentini non era l’aspetto esteriore, per quanto fosse un un uomo elegante e di un certo fascino, ma quello interiore.  La sua voce calda, profonda, arrochita dal fumo, continua ancora a ronzarci nelle orecchie. Era quello il suo dono più grande. E infatti, Sergio Fiorentini è stato prima di tutto un grande doppiatore. Ha prestato la sua voce a star internazionali come Gene Hackman, Charles Durning e Mel Brooks e a di
TIZIANO TERZANI, IL VERBO DEL CREDERE “ Finirai per trovarla la via, se prima hai il coraggio di perderti ”. E lui osò perdersi. Girare il mondo, conoscere gente, scoprire terre lontane e raccontarne saperi, sapori, colori, profumi e profili. Tiziano Terzani votò la sua intera esistenza alla conoscenza. Conoscere gli altri per conoscere meglio se stesso.  I suoi reportage prima - dai tempi in cui era un manager dell’Olivetti a quando diventò corrispondente per il settimanale tedesco “ Der Spiegel ” -, i suoi libri poi, lo hanno reso un affabile e simpatico narratore del globo - con il suo aspetto un po' da filosofo greco, un po' da anziano samurai -, attraverso luoghi, persone, pensieri ed emozioni. Un continuo peregrinare, in lungo e in largo, dall’America all’Europa, dall’Asia all’Africa, alla ricerca di risposte che, come sempre accade, possiamo trovare solo dentro di noi. “ Un altro giro di giostra ”, quello del suo libro più celebre, un viaggio interiore, lo compì però ne
IL DOGUI, UN SORRISO DA POLE POSITION Rolex d’oro al polso, sigaretta nella mano sinistra, bicchiere di whisky nella destra. Sembra di vederlo, Guido Nicheli, tra le spiagge  della Costa Azzurra e le baite di Cortina e St. Moritz. A bordo di auto sportive di “grande libidine”, che fosse un’Alfa o una Porsche, con la moglie bella ma frigida e l’amante giovane e disponibile. Il “ cumenda ” per antonomasia, sicuro di sé e della propria presunta superiorità, pronto ad apostrofare, con la sua tipica calata milanese infarcita di parole “ british ”, l’” animale ” di turno, che fosse un domestico di colore o il  borgataro romano arricchito che ha occupato il suo posto barca a Montecarlo.  Guido Nicheli, per tutti il Dogui, avrebbe compiuto novant’anni oggi e sicuramente ci avrebbe  ancora regalato perle di straordinaria comicità. Battute entrate nella storia del cinema come “ Alboreto is nothing! ”, dopo una performance di 2 ore, 54 minuti e 27 secondi alla guida per fare Milano-Cortina, oppu
MARIO BREGA: UN UOMO, UNA LEGGENDA Sguardo truce, volto barbuto, fisico imponente. Una mano che “poteva essere ferro oppure piuma”, a seconda delle circostanze, come raccontava in uno di quei film (“Bianco, rosso e Verdone”) che gli diedero la meritata popolarità . Un cuore che batteva forte, pompando sangue all’inverosimile fino al cervello, quando la collera si impossessava di lui che, oltre l’apparenza, era un uomo di grandi sentimenti. Un cuore che si fermò, trent’anni fa esatti, il 23 luglio 1994, per colpa di un infarto.  Contro di lui Mario Brega non pote’ nulla. Sembrava invincibile, nella sua grossa mole rivestita da abiti di sartoria, con tanto di cravatta, mentre girava per la sua Roma a bordo di raffinate Mercedes. Lui che aveva fatto a cazzotti con tutti per finta - ma forse non solo - da giovane boxeur prima, da attore caratterista poi, nei set più disparati di Cinecittà, tra peplum , film d’ambientazione fascista e western di un certo pregio, come quelli di Sergio Leone
PIERO PICCIONI: ARMONIA E LEGGEREZZA “ Goodbye my Piero, goodbye to your rhythm ”. Addio mio Piero, addio al tuo ritmo. Poteva essere così declinato il testo di una delle sue più celebri musiche per salutarlo. Piero Piccioni, uno dei più grandi compositori italiani, noto particolarmente per le sue leggendarie colonne sonore - fra tutte la sopracitata “Fumo di Londra” per Alberto Sordi -, se ne andava vent’anni fa, il 23 luglio 2004, portando via con sé decenni di musica inconfondibile, raffinata e ironica, malinconica e sognante.  Figlio del politico democristiano Attilio, pianista jazz di raro talento, finito ingiustamente in uno dei primi casi di cronaca nera che scossero il Paese negli anni ’50 (il “Caso Montesi”), che costò la carriera al padre, Piero Piccioni deva la sua fama al cinema, avendo realizzato decine e decine di musiche da film, primi fra tutti quelli diretti da Alberto Sordi - con un sodalizio durato più di trent’anni, fino all’ultimo film dell’attore, nel 1998 -, coll
GILDO BOCCI, UN “GIOVANOTTO” DELLA “ROMA BELLA” È stato un grande interprete del teatro dialettale romano, dalle platee di terz’ordine ai teatri più prestigiosi della Capitale, come il Brancaccio e il Quirino, portando in scena la sua maschera popolare e bonaria, ma se non fosse stato per il cinema, di lui, probabilmente, si sarebbe persa memoria.  Gildo Bocci, classe 1886, romano verace, se ne andava sessant’anni fa, il 22 luglio 1964, da tempo lontano da quelle assi di legno su cui aveva cominciato  ad esibirsi da giovanissimo. Per il teatro vernacolare era stato un piccolo monumento di cultura e tradizione romana, apprezzato e stimato quanto altri grandi cantori dell’ Urbe , come Ettore Petrolini, con cui Bocci lavorò. Tuttavia, la sua popolarità è legata in particolare modo al cinema, dove approdò fin dai tempi del muto.  In alto, Gildo Bocci con Carlo Campanini in "Dora Nelson" (1939) di Mario Soldati. In basso, Gildo Bocci con Carlo Romano in "Quattro passi fra le
SERGE REGGIANI, UNO SGUARDO DA RISCOPRIRE La luce della malinconia su un volto simpatico. La depressione che rode dentro, dopo un grande dispiacere - il suicidio del figlio - e la folle “cura” a base d’alcol, nella speranza di stare meglio. Non stava bene da tempo, Serge Reggiani, quando vent’anni fa, il 22 luglio 2004, un attacco cardiaco lo strappò alla vita.  Nato a Reggio Emilia nel ’22, cresciuto tra Parigi e la Normandia, allievo di Cocteau, attore prodigio oltralpe accanto a Simone Signoret in “Casco d’oro”, Serge Reggiani aveva fatto della recitazione una  passione e dell’antifascismo socialista la sua ragion d’essere. Forse questo spiega il perché, da noi in Italia, la sua presenza e la sua fama sono legate a film dal particolare spessore sociale, come “Tutti a casa” di Comencini, accanto a Sordi, ispirato ai fatti successi all’indomani dell’8 settembre, e “I sette fratelli Cervi” di Gianni Puccini, accanto a un altro attore "impegnato", Gian Maria Volonté. Lo sguard
SUSO CECCHI D’AMICO: SENSIBILITÀ E UNICITÀ Sensibilità. Ci vuole anche questo per scrivere un buon film. Specialmente se tratto dalla realtà quotidiana, come nel caso del neorealismo o della commedia all’italiana. Ancor di più, forse, quando si vuole portare sul grande schermo un’opera letteraria rendendola accessibile, popolare e allo stesso tempo fedele al testo originario. Ebbene, se la sensibilità è donna, e al netto di “penne” maschili di grande sensibilità che il nostro cinema ha avuto, da Flaiano a Fellini, la firma di Suso Cecchi D’Amico in calce alle sceneggiature più varie del nostro cinema non stupisce affatto.    Specialmente se parliamo di oltre mezzo secolo fa, quando il mondo (non solo quello in celluloide) era dominato dagli uomini, in posizioni di potere così come nei ruoli creativi. Giovanna Cecchi, detta “Suso” fin da bambina, D’Amico per l’unione con Fedele, critico musicale, nata a Roma centodieci anni fa - il 21 luglio 1914 - e cresciuta tra i quadri della madre,
ROSEMARIE DEXTER, LA BELLEZZA DAGLI OCCHI INDISCRETI Chissà come sarebbe stata oggi, a ottant'anni. Ci viene difficile immaginarlo. La vecchiaia avrebbe influito in maniera benevola o malevola sul suo dolce volto dagli occhi grandi e scuri? Chi può dirlo. La verità è che Rosemarie Dexter, attrice dalla carriera intensa e fulminea al tempo stesso, non ci avrebbe permesso di saperlo.  Era stata lei, a metà degli anni ’70, a decidere di lasciare quel mondo per cui aveva abbandonato il Pakistan - dove era nata, da genitori di origini britanniche, il 19 luglio 1944 - per l'Italia, col sogno di diventare attrice. Mora, carnagione olivastra, sguardo intenso, malinconico e sensuale, Rosemarie Dexter esordì nel 1963 accanto a Renato Salvatori in “Omicron” di Ugo Gregoretti.  In alto, Rosemarie Dexter con Renato Salvatori in "Omicron" (1963) di Ugo Gregoretti. In basso, con Geronimo Meynier in "Romeo e Giulietta" (1964) di Riccardo Freda. Fu però nei panni di Giuliett