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GILDO BOCCI, UN “GIOVANOTTO” DELLA “ROMA BELLA”


È stato un grande interprete del teatro dialettale romano, dalle platee di terz’ordine ai teatri più prestigiosi della Capitale, come il Brancaccio e il Quirino, portando in scena la sua maschera popolare e bonaria, ma se non fosse stato per il cinema, di lui, probabilmente, si sarebbe persa memoria. 






Gildo Bocci, classe 1886, romano verace, se ne andava sessant’anni fa, il 22 luglio 1964, da tempo lontano da quelle assi di legno su cui aveva cominciato ad esibirsi da giovanissimo. Per il teatro vernacolare era stato un piccolo monumento di cultura e tradizione romana, apprezzato e stimato quanto altri grandi cantori dell’Urbe, come Ettore Petrolini, con cui Bocci lavorò. Tuttavia, la sua popolarità è legata in particolare modo al cinema, dove approdò fin dai tempi del muto. 



In alto, Gildo Bocci con Carlo Campanini in "Dora Nelson" (1939) di Mario Soldati.
In basso, Gildo Bocci con Carlo Romano in "Quattro passi fra le nuvole" (1942) di Alessandro Blasetti.




Corpulento, dagli occhietti vispi su un faccione rubicondo, Gildo Bocci divenne l’archetipo dell’uomo del popolo, bonario e onesto, un po’ tonto, a volte ficcanaso oppure abulico, irresistibile nelle sue goffe espressioni. 



In alto, Gildo Bocci e Totò in "47 morto che parla" (1950) di Carlo Ludovico Bragaglia.
In basso, Bocci e Audrey Hepburn in "Vacanze romane" (1953) di William Wyler.




Tra le tante interpretazioni lo si ricorda nei panni di un pacioso tassista in “Dora Nelson” (1939) di Soldati, in quelli di un contadino stralunato e fuori dal mondo in “Quattro passi fra le nuvole” (1942) di Blasetti. Oppure ancora nei panni del bancarellaro che regala un fiore alla principessa Audrey Hepburn a spasso per i vicoli di Roma in "Vacanze romane" di William Wyler. 



Gildo Bocci con Maurizio Arena in "Poveri ma belli" (1956) di Dino Risi.



Indimenticabile, poi, accanto a Totò nelle vesti del macellaio a cui lo spiantato barone Peletti chiede perennemente credito in “47 morto che parla” di Bragaglia (ma fu anche il tabaccaio a cui il falsario Totò cerca di spacciare un biglietto da 10.000 lire fresco di stampa ne “La banda degli onesti”). A mio parere, però, il suo ruolo migliore, forse perché profondamente romano, è uno degli ultimi. Quello del simpatico portinaio vedovo, indolente e scansafatiche padre del “fusto” Maurizio Arena e della graziosa Lorella De Luca nella trilogia di Dino Risi sui “poveri ma belli”. Tre film ambientati a piazza Navona, nei gloriosi anni ’50, in una Roma ancora popolare, sorniona e genuina. Una “Roma bella”, quella dei “giovanotti” come lui: più che d’età, di cuore.


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