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FOSCO GIACHETTI, LA MALINCONIA IN UN VOLTO

Nel suo nome c’era qualcosa di già scritto. Fosco, come il suo volto severo, perennemente accigliato, specchio dei suoi indimenticabili personaggi. Ma l’anima di Fosco Giachetti, quella, era tutto meno che velata. La sua statura fisica, il suo portamento, la sua recitazione dura, incisiva, la sua passione per il mestiere ne hanno fatto uno dei più grandi interpreti del cinema italiano tra gli anni ‘30 e ‘40, dopo gli esordi in teatro con Ermete Zacconi ed eccelse prove d’attore accanto a nomi come Renzo Ricci, Renato Cialente e Marta Abba. 




Fosco Giachetti, fiorentino di Sesto, classe 1900, malinconico nel volto ma allegro nel cuore, che sapeva battere cadenzatamente verso tutto ciò che è lecito e giusto, divenne l’emblema dell’antieroe, dell’uomo tutto d’un pezzo, del militare integerrimo soprattutto in film di guerra e di avventura. A farne un divo fu il regista Augusto Genina, col quale diede gran prova di sé affermandosi come interprete drammatico ne Lo squadrone bianco e L'assedio dell'Alcazar e ottenendo la consacrazione definitiva con Bengasi, che gli valse una Coppa Volpi al Festival di Venezia nel 1942. 


In alto, Fosco Giachetti con Mireille Balin ne “L'assedio dell'Alcazar” (1940).
In basso, con Maria Tasnady in “Bengasi” (1942). Entrambi i film sono diretti da Augusto Genina.



Ma Giachetti aveva un volto particolarmente umano, dal profilo aquilino e l’aria onesta, che ben si prestava a raccontare drammi, storici o meno, ma anche racconti neorealisti, come Fari nella nebbia, di Franciolini. A metà anni ‘50, però, la sua presenza sul grande schermo cominciò a diradarsi, limitandosi a qualche apparizione (per quanto sempre incisiva) soprattutto in pellicole storiche e in costume. 


Fosco Giachetti e Mariella Lotti in “Fari nella nebbia” (1942) di Gianni Franciolini.



Fu a quel punto che Giachetti riacquistò nuova linfa grazie alla televisione e ai grandi sceneggiati. Fortemente espressivo, di solida formazione teatrale, Fosco Giachetti trovò un ruolo in tutte le più grandi opere letterarie trasposte sul grande schermo, da Il romanzo di un maestro a I promessi sposi (nelle vesti del padre della Monaca di Monza), da La cittadella a David Copperfield (dove era il fratello della governante del giovane protagonista). Ma, soprattutto, interpretò Libero, guardiano del faro di un’isola deserta ne I racconti del faro, uno degli imperdibili appuntamenti della Tv dei ragazzi degli anni ‘60. Forse uno dei luoghi (scenici, naturalmente) in cui si sia trovato meglio. 


In alto, Fosco Giachetti con Giancarlo Giannini in “David Copperfield” (1965) di Anton Giulio Majano.
In basso, con Roberto Chevalier “I racconti del faro” (1967) di Angelo D’Alessandro.



Perché tra le nubi sospinte dalla brezza marina, su una spiaggia scarsamente illuminata da un faro, Fosco Giachetti sembrava svettare in tutta la sua umana presenza, in tutta la sua malinconia, col sopracciglio levato in alto e uno sguardo inconfondibile. Uno sguardo che si spense cinquant’anni fa, il 22 dicembre 1974, quando un infarto ce lo portò via. Ma quel volto, quello di un Fosco, di nome e di fatto, continua a sopravvivere in decine e decine di fotogrammi, cinematografici e televisivi, in cui è ancora possibile godere del suo talento e di quell’arte della malinconica che solo pochissimi sono riusciti a eguagliare.

A.M.M.


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