ANDREA CAMILLERI: UN UOMO CHE AMAVA SCRIVERE
«Scrivo perché è sempre meglio che scaricare casse al mercato centrale. Scrivo perché non so fare altro. Scrivo perché dopo posso dedicare i libri ai miei nipoti. Scrivo perché così mi ricordo di tutte le persone che ho amato. Scrivo perché mi piace raccontarmi storie. Scrivo perché mi piace raccontare storie. Scrivo perché alla fine posso prendermi la mia birra. Scrivo, per restituire qualcosa di tutto quello che ho letto». Credo basti questa sua limpida, poetica e sincera affermazione per riportarlo in vita per qualche secondo. Scrivere come unica capacità di relazionarsi col mondo, scrivere come necessità esistenziale. Scrivere per il piacere di farlo. Scrivere per lasciare una traccia di sé. Andrea Camilleri avrebbe oggi raggiunto il secolo. E proprio di un secolo, il Novecento, egli è stato uno dei più grandi protagonisti, oltre che narratore.
Le sue parole, ironiche, intelligenti, sagaci e mai banali, sono state letteratura, storia, politica, perfino geografia, nel descrivere magistralmente, con la dolcezza di un pennino intinto nel calamaio dell’amore, la sua adorata Sicilia. Quella Sicilia che vibrava nella sua voce roca, splendeva nel suo sguardo sornione e autorevole, all’ombra della immancabile coppola. Andrea Camilleri adorava Leonardo Sciascia, ma era, a suo modo, Sciascia. Perché anche Camilleri era uno scrittore e un cantastorie, un narratore di verità, anche scomode. È vero, è stato regista teatrale, sceneggiatore, autore televisivo. Sul piccolo schermo lanciò grandi sceneggiati (il tenente Sheridan di Ubaldo Lay e il Maigret di Gino Cervi) e consacrò alla fama eterna il suo commissario Salvo Montalbano, nel corpo e nell’animo di Luca Zingaretti. Ma Andrea Camilleri, nella sua grande intelligenza, nella sua voglia di scoprire, di conoscere, di interpretare e sperimentare, resta nella sua grandezza un umile scrittore. E chi scrive, per professione o per diletto, lo sa: si scrive innanzitutto per se stessi. Ebbene Andrea Camilleri, come Leonardo Sciascia - di cui leggeva pagine e pagine con ammirazione e devozione -, ha sempre scritto per sé. Per la propria coscienza, per il proprio piacere, per il proprio benessere. Scriveva, come diceva lui stesso, perché non sapeva fare altro, ed è stato un bene. Perché le sue parole sono ancora qui. “Verba volant, scripta manent”, dicevano i latini, ma le sue sono rimaste e non soltanto impresse sulle pagine di un libro. Hanno valicato i confini di una copertina rigida, si sono disperse nell’aria, trasportate dal vento. Fluttuano sulle nostre teste, non conoscono i limiti di tempo e di spazio, neanche quello tipografico. Le sue parole, di carta o di vento, continuano a raccontarci storie meravigliose. Continuano a parlarci di lui, a tramandare la sua storia. La storia di un uomo che amava scrivere.
A.M.M.

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