LETTERA A FRANCO DI MARE
Caro Franco,
in questi giorni, in questi mesi così difficili la tua assenza si è avvertita ancor di più. Perché tu avresti sicuramente trovato un modo per raccontare l’inenarrabile. Di guerre ne hai vissute tante, dai Balcani all’Iraq fino al mesotelioma che ti ha portato via esattamente un anno fa. La guerra più difficile, perché non hai dovuto soltanto descriverla, ma combatterla in prima persona. Quello che però mi ha sempre colpito di te, è stata la capacità di trovare il punto di vista più giusto per raccontare ciò che hai vissuto. Perché la geopolitica, l’analisi economico-sociale, i punti cardine del giornalismo vanno benissimo, però bisognerebbe saper andare oltre. Badare all’essenza stessa delle cose più che riportare dati, numeri, osservazioni politiche, etiche o storico-culturali. Forse per restituire un po’ di umanità in un momento storico che sembra non averne alcuna.
Per chi ha la fortuna (è brutto dirlo) di vivere lontano dai teatri di guerra la sensazione è di assistere a una proiezione cinematografica, alla lettura collettiva di un romanzo drammatico. Personaggi come Trump, Putin, Netanyahu ci appaiono come i “cattivi” di turno. Loschi individui pronti ad essere sconfitti dall’eroico protagonista della favola un attimo prima della fatidica chiosa: “e vissero felici e contenti”. Ma questa felicità, caro Franco, è dura ad arrivare. Da est a ovest, da nord a sud non si fa altro che rimpallarsi responsabilità, doveri e colpe. L’Ucraina brucia sotto il fuoco russo, vede la sua popolazione assottigliarsi nel tentativo di difendere la propria casa, le proprie terre, la propria serenità familiare ormai perduta. A Gaza milioni di persone, soprattutto bambini, muoiono sotto le bombe e i colpi di fucili mitragliatori se non per l’astinenza da cibo e cure. Nel frattempo, i grandi del mondo si incontrano e si scontrano, annunciano e ritrattano e si ritrovano sempre al punto di partenza. Sembra abbiano fatto proprio il monito di una felice canzone di Raffaella Carrà: “Se per caso cadesse il mondo io mi sposto un po’ più in là”. Alla fine, a me che importa? Perché sta tutto lì, Franco, e tu lo sai meglio di me. Tu che sei stato inviato di guerra per tanti anni, tu che hai vissuto sulla tua pelle cosa significa vivere col pericolo costante di esserci e non esserci più un attimo dopo, per colpa di una granata o per mano di un cecchino, sai benissimo che la distanza, più o meno breve, tra chi è sano e chi è malato è spesso incolmabile. Noi siamo “sani”, la guerra non ci riguarda, è a chilometri di distanza da noi. Ma chi esclude che potrebbe arrivare alle nostre porte da un momento all’altro? “Dio ci pensa”, potrebbe dire qualcuno. Ma l’indifferenza non fa mai bene. In questi mesi di articoli sulla carta stampata, di interviste radiotelevisive, di dibattiti nei talk pomeridiani si sono fatte analisi, proiezioni future e retrospettive dal punto di vista socio-economico e storico-politico e ciò, a mio avviso, non fa altro che ridurre l’empatia delle persone. Dopotutto non sono soltanto i grandi della Terra a vivere tutto questo come i bambini che giocano coi soldatini. Siamo anche noi, noi comuni mortali a non capire davvero (o forse non vogliamo) la portata di ciò che sta accadendo. Perché riguarda tutti noi, nessuno escluso. Ecco allora che viene in gioco quello che tu hai sempre fatto: ascoltare per poter capire, prima ancora di raccontare. Perché il problema non è l’incomprensibilità della guerra per chi non la vive su di sé, ma come la si racconta. «Un conflitto apre voragini profonde in cui finiscono le vite e le storie delle persone. Le vicende umane di tutti gli uomini e le donne, travolti dalla guerra, non trovano quasi mai spazio sui taccuini dei cronisti, schiacciate come sono dalla cronaca dei lutti, cancellate dalla violenza degli avvenimenti. Eppure, a saperle ascoltare, quelle storie sanno parlarci degli effetti della guerra sulle comunità umane meglio di qualunque analisi politica», così scrivevi ne Il cecchino e la bambina. E sono proprio gli “effetti della guerra” sulla gente, le vicende umane a restituirci per davvero il dramma che stiamo vivendo. Bisognerebbe soprattutto ascoltare quelle storie, vivere quegli sguardi, quei patemi d’animo, quelle paure, quelle speranze per provare a comprendere. L’empatia vale molto di più di una analisi geopolitica. Forse dovrebbe provarla anche chi ha il difficile compito di occuparsi della difesa e della sicurezza internazionali. Chi si riempie la bocca di parole come democrazia, dignità della persona, diritto alla vita e giustizia sociale a favore di telecamera e a microfoni accesi. Vedi mai che si aprisse una squarcio di luce in questo cielo oscuro? Grazie per avermi ascoltato, caro Franco. Sono certo che ti ritrovi nel mio ragionamento così come io mi ritrovo sempre nelle tue parole. In questa pazza epoca non sembrerò tanto folle nello sperare in una tua risposta. Anche se, in fondo, una risposta l’ho avuta già nello stendere questa lettera: la tua costante ispirazione, ad ogni parola. Spero non venga mai meno.
Ti abbraccio con stima
Andrea
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