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FANTOZZI, LA “PIEGA” UMANA


In principio era il Libro. E il Libro si fece Film. L’esagerazione di ironica ispirazione evangelica è quasi un obbligo quando si parla di un personaggio condannato alla stoica rassegnazione di chi non può fare altro che arrendersi - pur tra sporadici e illusi tentativi di ribellione - davanti al destino avverso. 




Il ragionier Ugo Fantozzi, matricola 1001/bis, dislocato all’Ufficio Sinistri della Italpetrolcemetermotessilfarmometalchimica, la Megaditta, faceva il suo ingresso nel cinema italiano il 27 marzo 1975, portando in dote un universo grottesco, surreale, ma profondamente realistico nella descrizione della vita e delle peripezie di un impiegato sottomesso al circuito amministrativo-burocratico della sua azienda. Una “mezza manica” che passa il suo tempo sepolto tra scartoffie e pratiche, proprie e altrui, mentre una fauna di impiegati, occhialuti o affascinanti, anziani o giovani, panciuti o filiformi, piacenti o repellenti, passa il tempo tra letture di quotidiani, partite a battaglia navale e organizzazioni di eventi ricreativi come partite di pallone o di tennis, campeggi in riva al lago e veglioni di Capodanno. 


In alto, Fantozzi con il ragionier Filini (Gigi Reder). In basso, Fantozzi e la signorina Silvani (Anna Mazzamauro).


Eventi curati magistralmente dal miglior/peggior amico di Fantozzi, il ragionier Filini (un eccellente Gigi Reder). Mentre un altro amico, prevaricatore, il geometra Calboni (Giuseppe Anatrelli) rapisce il cuore della signorina Silvani (Anna Mazzamauro), “Miss quarto piano” e desiderio proibito del probo impiegato che passa la sua misera esistenza a fantasticare su un amore che, tra capitoli e capitoli cinematografici, non vede mai il lieto fine (o quasi). Ma Fantozzi del 1975, il primo, l’insuperabile, diretto da Luciano Salce e particolarmente aderente ai racconti che Paolo Villaggio, il volto e il corpo di quel ragioniere sfortunato, scrisse con acume e intelligenza ispirandosi alla sua esperienza all’Italsider di Genova, racconta anche una esistenza grigia, fallimentare, ma fortemente rassicurante. 


Fantozzi con la moglie Pina (Liù Bosisio) e la figlia Mariangela (Plinio Fernando).

Questa pellicola parla alla pancia del Paese nel bel mezzo degli anni di piombo, strappando un sorriso a chi, abiti pastello e basco nero in testa, vive una grigia esistenza tra corridoi, pause caffè, pratiche infinite, cartellini da timbrare e stipendi da ritirare, trincerandosi nella propria nullità quotidiana e sentendosi al riparo da una realtà esterna fatta di stragi, assassinii, rapimenti e atti di destabilizzazione sociale e politica con armi, bombe e polveri da sparo. Perché Paolo Villaggio, l’intellettuale, l’uomo cinico e disincantato, aveva proiettato in Fantozzi le illusioni e i sogni di gloria dell’italiano medio, che in esso si riconosceva e al tempo stesso disconosceva, non volendo ammettere la propria natura. Ma quella natura, in quel periodo buio della nostra storia recente come nel nostro presente privo di certezze, è una natura rassicurante. Ugo Fantozzi è uno sfigato, un perdente, vessato, maltrattato e bistrattato. Umiliato dal Megadirettore galattico, ai cui piedi si prostra senza un briciolo di dignità. Sfruttato dai colleghi che approfittano del suo servilismo scaricando su di lui il proprio lavoro. Però, tutto sommato, Ugo Fantozzi ha un diploma, un lavoro fisso e ben retribuito. Ferie pagate, contributi previdenziali, tredicesima. Una casa di proprietà con balconcino che affaccia sulla Tangenziale Est di Roma, sulla quale letteralmente gettarsi per prendere l’autobus “al volo” e non fare tardi in ufficio. Ha una utilitaria modesta, ma dignitosa. Una famiglia amorevole, con la moglie Pina (Liù Bosisio prima, Milena Vukotic poi) e la mostruosa figlia Mariangela (Plinio Fernando). Una vita, in sostanza, invidiabile da un certo punto di vista. Perché il ragionier Fantozzi vive nel suo piccolo mondo di nani sopraffatti dai giganti. Ma nel suo nanismo trova un equilibrio attraverso cui condurre una esistenza in fin dei conti accettabile. Con rassegnazione stoica, certo, ma anche con la consapevolezza che c’è anche chi sta peggio. Perché nonostante tutto Fantozzi va contro tutti, alla riscossa, in pensione, in paradiso e viene persino clonato (nell’ultimo infelice capitolo della saga). Passando dalla regia di Luciano Salce a quella di Neri Parenti diventa poi quasi una macchietta, un personaggio fumettistico che si distacca sempre più dalla realtà. Ma quella realtà, quella che cinquant’anni fa Villaggio portò per la prima volta sul grande schermo attraverso il suo alter ego, non è così malvagia. Rappresenta, piuttosto, la capacità di sapersi adattare alle difficoltà del quotidiano. Insegna a saper abbozzare, a misurarsi con le ingiustizie e le prevaricazioni, e a riuscire così vincitori. Perché Ugo Fantozzi si piega, ma non si spezza. E se il suo atteggiamento e la sua bonaria ingenuità ci hanno fatto ridere e piangere per aver messo a nudo le fragilità e le miserie di tutti noi (che era poi l’intento dello stesso Villaggio) adesso è arrivato per lui il momento di farci riflettere. La sua “piega” umana, la sua forza di flettersi con umile coraggio facendo di necessità virtù, ne ha fatto un piccolo anti-eroe. E non è questo, forse, nel nostro presente più che allora, il segreto del saper vivere?

A.M.M.

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