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BRUNO PIZZUL: IL CALCIO BELLO, IL CALCIO VERO


«Tutto molto bello», ripeteva spesso durante le sue telecronache. E in fondo aveva ragione. Perché se si escludono i vizi e le follie dei giocatori, se si elimina tutto quanto di brutto c’è dietro il mercato del calcio, se si guarda soltanto allo sport, quello che tutti noi, almeno una volta, abbiamo provato in strada, prendendo a calci un pallone, allora il calcio è bello. È bello soprattutto perché si basa sul gioco di squadra, sul fare di necessità virtù, sul valorizzare ciascun membro del gruppo per le proprie potenzialità. 





È bello perché divide, tra campionati, squadre e goleador, ma unisce anche: tutti davanti al televisore per vedere giovani prestanti alle prese con passaggi, cross, dribbling ed evoluzioni fantasiose. Per Bruno Pizzul era «molto bello» soprattutto perché, dall’alto della tribuna stampa, da una visuale privilegiata, riusciva a seguire il pallone con lo sguardo, oltre che con la voce, accompagnandolo lungo il campo, tra piedi benedetti dal talento e volti rigati dal sudore e dalle lacrime della gioia dopo un tiro in porta all’ultimo secondo, prima del fischio finale. Lui aveva vissuto il calcio da dentro, come centromediano, passando dalla Cormonese e la Pro Gorizia al Catania. Poi un infortunio lo portò fuori dai giochi, ma in campo ci tornò: senza divisa, senza scarpette, ma dietro un microfono. Il concorso in Rai, l’ingresso nei ranghi dei telecronisti quando ancora il calcio era appannaggio esclusivo della Tv di Stato e allo stadio si andava in giacca e cravatta, pur lasciandosi trasportare dall’esuberanza emotiva per far sentire il proprio tifo. Ma senza lasciarlo degenerare in baruffe, tafferugli e violenze a cui siamo ormai fin troppo abituati. Quel «Tutto molto bello» non era però legato alla tifoseria, all’aplomb dei calciatori e neanche al mondo del calcio in genere, ma all’essenza stessa del calcio. Dall’86 al 2002, anni in cui seguì la Nazionale, Bruno Pizzul assistette anche al cambiamento dello sport più amato dagli italiani. Quando intorno alla sfera di cuoio non si sviluppavano più soltanto l’amore per il pallone e la passione per le sfide ma anche la nascita di una “moda” che aveva fatto dei calciatori dei divi da scandalo in copertina e del calcio semplicemente un business. Ma la bellezza del calcio, quella che emergeva dalle parole composte, precise e mai urlate di Pizzul era quella del gioco in sé per sé. La prodezza dei giocatori che mettono tutto se stessi in campo. Le loro acrobazie con la palla al piede. La gioia nei loro occhi quando sembra tutto perduto e invece, all’improvviso, basta un passo decisivo in attacco per ribaltare il risultato, così come la tristezza e la rabbia quando l’andamento del gioco delude le aspettative. Ecco, credo che Bruno Pizzul, da giovane calciatore prima e da telecronista poi, abbia saputo vedere il meglio del calcio, come è giusto che sia per chi ama uno sport che non ha niente di sbagliato in sé, ma viene rovinato da tutto ciò che gli gravita attorno, dalle inchieste sul calcio scommesse alle indagini sulle violenze delle varie Curve, passando per la legge del “business is business”, che sembra giustificare sempre tutto pur di fare cassa. Pizzul, invece, amava il calcio puro, quello che si gioca da bambini in strada e che quando si diventa grandi, e magari si ha la fortuna di diventare davvero dei campioni, ci permette di conservare la lealtà, la passione e la dedizione che mettevamo in quelle partite di quartiere. Forse anche per questo, nella sua vecchiaia, conclusasi a un passo dagli ottantasette anni - li avrebbe compiuti oggi - si divertiva a commentare anche le partire locali per i suoi concittadini a Cormons, nel suo amato Friuli. La città in cui ha vissuto la sua ultima stagione e in cui ieri è stato salutato con affetto. Perché lui amava il pallone che corre sul prato o sull’asfalto, che fa rete tra gli alberi di un parco o sotto l’arco di un portone. Il calcio quello bello, quello vero. Il calcio che, con Pizzul e la sua voce, ha forse perso anche la sua identità.


A.M.M.

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