L’ARTE DELLA MEMORIA
«È da barbari scrivere ancora lirica dopo Auschwitz» scriveva il filosofo ebreo tedesco Theodor W. Adorno in un saggio del 1949, quattro anni dopo che l’intera umanità sopravvissuta al genocidio e agli orrori della guerra scoprì cosa si nascondeva dietro quel cancello sul quale campeggiava la scritta, Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi. Per Adorno tornare a fare poesia, tornare ad occuparsi di arte, che fosse arte in sé e per sé (l’art pour l’art) o arte politicamente “impegnata” rappresentava un atto di barbarie dopo la cruda e amara verità rivelata dalle truppe dell’Armata Rossa, che il 27 gennaio 1945 liberarono gli ultimi superstiti del campo di concentramento di Auschwitz.
Come si può, si chiede Adorno, tornare a scrivere, a dipingere, a comporre musica, a scolpire una statua o un basso rilievo come se nulla fosse accaduto? Non è umanamente possibile, oltre che crudele. Fare finta di niente, ricominciare a vivere come se quella verità drammaticamente rivelata non fosse mai esistita sarebbe stato ingiusto, oltre che illusorio. Per Adorno l’arte è uno strumento fondamentale perché consente di rappresentare il reale per ciò che è, nel bene e nel male. È una barbarie ricominciare a fare musica, a fare poesia, a scrivere racconti e romanzi, a girare film se ciò significa dimenticare ciò che è stato, cancellando tutto con un colpo di spugna. Fare arte, in tutte le sue sfaccettature, invece, significa fare esattamente il contrario: non cancellare, ma evidenziare. La giornata della memoria, istituita vent’anni fa, rientra proprio in quest’ottica. La barbarie di cui parlava Adorno è quella dell’arte di propaganda fascista e nazista, del teatro e del cinema scissi da qualsiasi intento istruttivo ed educativo. Di una letteratura e di una poesia che mirano soltanto all’intrattenimento disimpegnato. Ecco, Adorno riteneva che l’arte potesse avere un senso dopo Auschwitz soltanto conservando il suo principio primo e ultimo: essere utile. Avere un senso che vada oltre il semplice godimento estetico. L’arte deve “essere” e non semplicemente “esistere”. L’arte non è soltanto esteriorità ma anche interiorità. Deve indurci alla riflessione, all’accettazione delle cose così come al loro rifiuto. Ciò non significa che anche la leggerezza, nella vita, non sia fondamentale. Questo però non esclude la necessità, il bisogno di sottolineare che le nostre esistenze, fatte anche di frivolezze e di momenti di svago, siano state una conquista faticosa e importante. Una vittoria raggiunta laddove l’umanità ha toccato il fondo, cercando di autodistruggersi. Quella distruzione, oggi, è solo un ricordo, ma un ricordo che va preservato, conservato in un cassetto, chiuso nell’oscurità di un tempo che per fortuna appare essere remoto, ma neanche tanto. Un cassetto che può e deve essere aperto, almeno una volta all’anno, per riportare alla luce quanto di più atroce e disumano ci sia stato al mondo.
A.M.M.
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