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 ANDREA CHECCHI, ESEMPI DI "VITE"

 

 Il suo sguardo, un po' malinconico, è forse uno dei più intensi ed espressivi che il cinema italiano abbia mai avuto. Nonostante questo, non c'è immagine meno limpida, meno sfocata di quella di Andrea Checchi. Un attore dalle indubbie qualità, dalla recitazione solida, dalla carriera lunga e variegata. Un uomo di grande presenza e fascino, con una voce indimenticabile. Un artista vero, se si considera anche la sua prima, antica ed eterna passione: la pittura. Dall'Accademia delle belle arti della sua Firenze - città in cui nacque il 21 ottobre 1916 - Andrea Checchi uscì con un diploma e la certezza che i suoi dipinti gli avrebbero tenuto compagnia per sempre. 



Poi, però, la grande decisione di portare avanti un altro sogno: la recitazione. Il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, l'incontro con Blasetti e l'inizio di una carriera che, da attor giovane, lo vide brillare in drammi storici e rievocativi, come "1860" e "Vecchia guardia". Da Campogalliani a Camerini, da Gallone a Mattòli e Bonnard, dal dramma alla commedia, Andrea Checchi rivelò un talento non privo di misura, forse un difetto, ma anche un pregio. Perché passata la "foga" del cinema di Regime degli anni '30, passato il periodo bellico e le forzate interruzioni, Checchi sembrò essere dimenticato. 


Andrea Checchi con Aldo Fabrizi in "Avanti c'è posto!" (1942) di Mario Bonnard.


Eppure, nell'immediato Dopoguerra, riemerse dalle ceneri, come protagonista di un dramma di speranza, forse sottovalutato, "Roma città libera" di Marcello Paglieri, vestendo i panni di un individuo aspirante suicida salvato da un ladro all'indomani della Liberazione. Da lì, registi come Giuseppe De Santis ("Caccia tragica") e ancora Camerini ("Due lettere anonime") videro nel suo sguardo obnubilato la luce giusta per descrivere vicende di chiara espressione neorealista.


In alto, Andrea Checchi con Clara Calamai in "Due lettere anonime" (1945) di Mario Camerini.
In basso, con Valentina Cortese in "Roma città libera" (1946) di Marcello Paglieri.


Ma il vero pregio di Andrea Checchi era l'essere un pittore. Da bravo artista era in grado di ritrarre i personaggi con fedeltà e maestria, seppur in ruoli di contorno o piccole figurazioni, anche in film importanti. Carlo Lizzani ("L'oro di Roma", "Il processo di Verona"), Florestano Vancini ("La lunga notte del '43") e Walter Filippo Ratti ("Dieci italiani per un tedesco (via Rasella)") affidarono al suo volto interpretazioni delicate, dipinte sempre con quella vena di malinconia del perdente, un ruolo a cui Checchi si prestò più e più volte. 


In alto, Andrea Checchi con Belinda Lee ne "La lunga notte del '43" (1960) di Florestano Vancini.
In basso, con Anna Maria Ferrero ne "L'oro di Roma" (1961) di Carlo Lizzani.


Ma anche se si trattava di una commedia egli era sempre pronto a mettere tutto se stesso, in volto e corpo, come nei panni di Orazio, un metronotte romano involontariamente complice di una rapina in banca e aiutato a recuperare la refurtiva da una banda di ladruncoli capitanata da Mario Carotenuto in "Colpo gobbo all'italiana" di Lucio Fulci. Un film forse di minor prestigio (ma non di minor pregio), nulla in confronto al resto, ma di certo in grado di far emergere il suo talento.


Da destra, Andrea Checchi, Mario De Simone e Mario Carotenuto in "Colpo gobbo all'italiana" (1962) di Lucio Fulci.


 Tuttavia, già dai primi anni '60, Andrea Checchi iniziò a dedicarsi soprattutto al teatro, lavorando con grandi registi come Orazio Costa, e si lasciò lusingare anche dalla televisione, dove la sua fotogenia lo rese prezioso in numerosi sceneggiati, come "Il segno del comando" di Daniele D'Anza, nelle vesti del commissario Bonsanti. Anch'egli dipinto con cura, con un'ironia non certo priva di quelle tonalità malinconiche tipiche dei suoi personaggi. 


Andrea Checchi con Ugo Pagliai nello sceneggiato Rai "Il segno del comando" (1971) di Daniele D'Anza.


Ma di colori opachi si dipingono anche gli ultimi giorni della sua vita. Andrea Checchi venne colpito da una rara malattia virale. I familiari lo ricoverarono in una clinica a Ginevra, ma le sue condizioni precipitarono e così lo riportarono a Roma, dove se ne andò il 29 marzo 1974, ad appena cinquantasette anni. Sì, forse quella fine da perdente, da giusto punito da una vita ingiusta, somiglia molto alle tante storie che lo videro protagonista. Però si sa, sono questi gli esempi veri, autentici delle nostre esistenze quotidiane. Esempi di malinconiche giornate vissute col sorriso, sebbene con gli occhi velati. Esempi di uomini che lottano contro le difficoltà e che perdono, pur vincendo con se stessi e la propria coscienza.  Ecco, Andrea Checchi, a cinquant'anni dalla sua scomparsa, non è soltanto un raffinato pittore e un grande attore da riscoprire, ma anche un esempio. Esempio di "vite".

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