Passa ai contenuti principali

 SANTE CAROLLO, "PRIMO" TRA GLI "ULTIMI"


 Era un manovale vicentino e come tale trascorse il resto della sua vita. Ma per un caso fortuito, per una coincidenza astrale particolarmente favorevole, quel manovale diventò un campione, un campione degli ultimi. Correva - o forse meglio "pedalava" - il Giro d'Italia del 1949, in quegli anni la competizione più amata dagli italiani, pedalatori giornalieri per lavoro o per diletto nel disastrato e speranzoso Dopoguerra. Fiorenzo Magni, vincitore del Giro in carica, è costretto a rinunciare alla gara e così, la Wilier Triestina per cui egli correva, per completare la squadra decise di ricorrere ad uno sconosciuto: un dilettante che si era fatto notare per le sue doti di scalatore. Uno che la bicicletta la utilizzava più per necessità che per passione. 




Sante Càrolo, o più precisamente Carollo - così come venne erroneamente registrato al Giro -, si ritrovò così a gareggiare nella celebre competizione a tappe che prometteva la "maglia rosa" al ciclista più virtuoso. Quella stessa maglia che, di rimpallo in rimpallo, aveva ricoperto le possenti spalle di Bartali e quelle più gracili di Coppi. Ma quella maglia, per Carollo, poteva essere soltanto una chimera. Sante Carollo non aveva per niente la "grinta" del campione. Andava piano, piano davvero, e già alla prima tappa di quel Giro si ritrovò sulle spalle un'altra maglia, altrettanto famosa e altrettanto ambita: la "maglia nera". Essa, al tempo, era il premio di consolazione per il corridore che arrivava ultimo. Quello che veniva premiato per aver resistito fino alla fine completando il percorso, guadagnandosi denaro o generi alimentari. Carollo capì ben presto che quello doveva essere il suo obiettivo. Arrivare primo era impossibile, ma arrivare ultimo, perché no? Ma come dicevamo, quel premio era molto ambito. E infatti, da qualche anno, ad aver monopolizzato la "maglia nera" c'era un vero "campione degli ultimi": Luigi Malabrocca. Uno che con la bicicletta ci sapeva fare sul serio, uno che aveva approntato una tecnica infallibile. Uno che staccava il gruppo con velocità supersonica, si infrattava in cascine, bar e trattorie lungo il percorso, aspettava il momento giusto e poi ripartiva, in tempo per raggiungere il traguardo all'ultimo istante. A Luigi Malabrocca, il "Mala", era andata sempre bene, ma lì, in quel 1949, a sfidarlo c'era lui, Sante Carollo. Dopo che quest'ultimo conquistò la "maglia nera" alla prima tappa, pedalando con dolcezza e tranquillità non volute, Malabrocca capì di dover correre ai ripari per aggiudicarsi la vittoria. Fu così che quella competizione passò alla storia per questo insolito duello alla conquista dell'ultimo posto. Carollo e Malabrocca si sfidarono a colpi di lente pedalate e soste strategiche, attuate soprattutto dal secondo, che nell'ultima tappa staccò ben presto Carollo e gli altri nascondendosi e aspettando il momento opportuno per correre a tagliare il traguardo. Ma quella volta, il "Mala", il campione, peccò di leggerezza. Perché Carollo raggiunse il traguardo prima di lui, ma Malabrocca si presentò all'arrivo ben oltre lo scadere del tempo, quando i cronisti erano andati via, per cui venne classificato come penultimo. Ciò portò il Malabrocca, deluso, ad abbandonare quella competizione per sempre, e a esprimersi su altri percorsi (anche con risultati soddisfacenti), mentre Sante Carollo visse il suo primo e ultimo momento di gloria, dopo il quale decise di ritornare alla sua professione abituale. Un lavoro normale, una vita tranquilla con una esperienza speciale. Una gara tra campioni in un campionato strano, dove si pedalava all'indietro. E proprio così, pedalando all'indietro nel tempo, ecco che ritroviamo queste storie simpatiche e assurde, fatte di maglie nere e momenti di luce. E a cento anni dalla nascita, con una maglia nera indosso, Sante Carollo conserva ancora il suo "posto tra gli ultimi" nella storia dei primi.

Commenti

Post popolari in questo blog

GRAZIE, PAPA FRANCESCO! Ho fatto quello che abbiamo fatto un po’ tutti, quello che lui stesso ci ha sempre chiesto. Ho pregato per lui. L’ho fatto per stima, fede e paura.  La paura che potesse abbandonarsi, che la sua ultima immagine rimanesse celata nelle stanze del Policlinico Gemelli. Oggi molti di noi potrebbero  pensare che sia stato tutto vano. E invece no, perché ciò gli ha permesso di resistere e non risparmiarsi fino alla fine. Papa Francesco ha lasciato  quell’ospedale: provato, stanco, aggrappato alla sedia a rotelle come a quella speranza che non ha perso mai. È tornato a casa sua. Ha continuato   a lavorare, anche durante la sua lunga degenza. Ha nominato nuovi cardinali, ha lanciato messaggi di pace.  Ha parlato di guerre inutili, di atroci   sofferenze. Ha incontrato i Reali e il Vice Presidente americano Vance. Ha parlato di Pasqua e di Resurrezione. Ieri mattina ha augurato Buona   Pasqua al popolo di Dio riunito a San Pietro e ha vol...
LILIANA RIMINI, LA MERAVIGLIA DI UN SOGNO « Non sembra ma ho tanti, tanti anni e tante esperienze […] di coraggio e di forza ». Non sembra, per davvero, osservandola nella sua figura minuta, nel suo sguardo limpido, da anziana rimasta bambina nell’animo, con la capacità di “filosofare”, come avrebbe detto Aristotele, ovvero di guardare il mondo con gli occhi della meraviglia. Liliana Rimini, classe 1929, milanese doc, esuberante ed elegante in un tailleur bianco e nero sembrava una ragazzina nel paese dei balocchi martedì mattina, quando all’Ospedale Antonio Cardarell i di Napoli, frutto dell’estro, della passione e dell’impegno del suo papà, l’architetto Alessandro Rimini, ha visto prendere forma quel sogno custodito per anni in un cassetto e ormai quasi assuefattosi alla polvere del tempo e del rimpianto mai svanito.  Liliana Rimini. Il suo papà, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Venezia, soprintendente ai monumenti di Trieste e Venezia Giulia, uno degli architetti più br...
DON CARLO CASCONE, IL RICORDO DI UN SORRISO DOLCE Braccia dietro la schiena, busto leggermente inclinato in avanti e su, un piede dopo l’altro, per la salita di Sant’Antuono, col basco calcato in testa e la tonaca svolazzante. Me lo ricordo così, don Carlo Cascone, quando la mattina, con la pioggia o con il sole, veniva a celebrare la messa feriale a pochi passi da casa mia, nella chiesetta di Sant'Antuono. Ci incontravamo sempre: io andavo a scuola e lui usciva dalla chiesa, a messa finita, fermandosi a parlare con i suoi parrocchiani, tra cui c’erano anche le mie nonne, Rosa e Assunta. Classe 1920, nativo di Lettere, vicino Napoli, don Carlo ha trascorso per oltre cinquant’anni la sua vita, terrena, spirituale e missionaria, a Lagonegro, in provincia di Potenza, dove è stato ordinato sacerdote nel 1943.  Monsignore per merito e per grazia dei suoi fedeli, prete saggio, generoso e popolare, devotissimo della Madonna di Sirino, al cui seguito, per decenni, è salito sulla vetta del ...