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 LETTERA A UNA PROFESSORESSA, IL TESTAMENTO DI DON MILANI


«Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che “respingete”. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate». Queste parole racchiudono il senso profondo della sua missione, del suo credo, della sua scuola. Una scuola diversa per chi diverso non è ma viene percepito come tale. Una scuola osannata e contestata. Una scuola che ha fatto “scuola”. Lettera a una professoressa, di don Lorenzo Milani, diventò il manifesto del Sessantotto, la “guida” spirituale di chi contestava un sistema (sociale, politico, economico) ritenuto obsoleto. Ma oggi, a un secolo dalla nascita del prete di Barbiana, essa rappresenta il testamento di un uomo che ha fatto della Fede strumento di lotta e di riscatto dall’ignoranza e del Vangelo il decalogo degli unici e veri princìpi del cristianesimo. 



Lassù a Barbiana, una frazione di Vicchio (FI) abbarbicata sui rilievi montuosi del Mugello, don Lorenzo Milani era stato mandato nel 1954 per “punizione”, perché in meno di dieci anni di attività sacerdotale era andato ben oltre i suoi compiti pastorali, criticando spesso anche le direttive imposte dalla Chiesa. Pittore allievo di Hans-Joachim Staude a Firenze, studente all’Accademia di Brera di Milano, Lorenzo Milani, figlio di famiglia borghese ebrea, cristiano dal 1933 - quando, per scongiurare il pericolo delle persecuzioni, i genitori si sposarono con rito cattolico e battezzarono i loro figli -, venne folgorato dalla potenza del Vangelo leggendo un messale mentre affrescava una cappella durante una vacanza a Gigliola, nel 1942. «Ho letto la Messa. Ma sai che è più interessante dei “Sei personaggi in cerca di autore?”», confida all’ex compagno di liceo Oreste Del Buono, una delle tante testimonianze della sua meditata e convinta conversione al cattolicesimo, cominciata con la prima comunione e consacrata dall’ordinazione sacerdotale, nel 1947. Prima di Barbiana, il lungo excursus di Esperienze pastorali confluite nell’omonimo libro bandito da pubblicazione e diffusione da parte del Sant’Uffizio, nel 1958.«Il prete lo faccio quando amministro i sacramenti. La scuola mi serve per cercare di trasformare i sudditi in popolo sovrano, gli operai ed i contadini sfruttati in persone consapevoli e capaci di rivendicare i propri diritti», scrive in Esperienze, rivelando ad ogni parola una sorta di dispiacere per l’avversione dimostrata nei suoi confronti dalla Chiesa, che secondo il prelato dovrebbe sì garantire un posto in Cielo ma anche una “giusta” sistemazione in Terra. Lavoro, disoccupazione, povertà, analfabetismo sono temi che il sacerdote ritiene consoni all’interesse di un ministro di Dio, votato alla carità e alla sussistenza concreta. Affinché si verifichi un vero processo di “cristianizzazione” è necessario che tutti siano in grado di comprendere il vero senso delle Sacre Scritture, invece di ripetere a memoria formule e preghiere di cui non conoscono neanche il vero significato. Negli anni ‘50, la Messa veniva officiata in latino (abolito dal Concilio Vaticano II, 1962-1965). «Con la scuola - scrive ancora in Esperienze pastorali - non li potrò far cristiani, ma li potrò far uomini; a uomini potrò spiegare la dottrina e su 100 potranno rifiutare in 100 la Grazia o aprirsi tutti e 100, oppure alcuni rifiutarsi e altri aprirsi. Dio non mi chiederà ragione del numero dei salvati nel mio popolo, ma del numero degli evangelizzati». E proprio «evangelizzazione» è il termine giusto per comprendere la sua summa opera pedagogico-cristiana compiuta con bambini e ragazzi con tanti desideri ma zero possibilità di vederli realizzati. Don Milani crede in loro, gli dà fiducia, gli fornisce i mezzi materiali e spirituali per poter superare ogni difficoltà. Crea una scuola, come dicevamo, diversa per “diversi” che aspirano a diventare uguali a tutti gli altri, quelli respinti dalla scuola normale propriamente detta. «La scuola ha un problema solo: i ragazzi che perde», dice don Milani, diventando così una non-scuola, o meglio «un ospedale che cura i sani e respinge i malati». Malati che poi, in fondo, non lo sono per davvero. Gli allievi della scuola di Barbiana sono ragazzi che hanno perso la fiducia nel futuro, che si sentono in difetto solo per aver avuto la sfortuna di nascere poveri. «È solo mancanza di prepotenza» dicono gli alunni alla «signora» nella Lettera. Sì, alunni al plurale, perché il lavoro compiuto da don Milani è un lavoro collettivo. Quella di Barbiana è una comunità dove tutti si aiutano vicendevolmente, dove la brocca piena riempie quella vuota, dove chi sa trasmette il suo sapere agli altri. Consapevolezza, è questa forse la parola chiave del sistema educativo di don Milani. Importante tanto quanto il motto “I care”, mi interessa, affisso sulla porta della chiesa. Come a dire: qui troverete sempre qualcuno pronto ad aiutarvi. Consapevolezza, dunque. Famiglia, Chiesa e società consapevoli di dover aiutare, supportare e sostenere cittadini consapevoli di se stessi, dei propri diritti come dei propri doveri. E al di là dei tanti scritti di don Milani, delle sue critiche alla società, alla Chiesa, al sistema democratico, delle sue lotte a favore di piccoli e grandi - dagli operai e i contadini del Mugello ai giovani “obiettori” che rifiutavano la leva obbligatoria -, Lettera a una professoressa, la sua ultima fatica (pubblicata un mese prima della sua scomparsa, nel 1967), rappresenta forse la testimonianza più completa per comprendere davvero idee, pensieri e sogni di un grande sacerdote, educatore e uomo.


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