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 FRANCESCO ROSI: L'ESERCIZIO DEL DUBBIO


"Bisogna creare una certa distanza dagli avvenimenti per poterli leggere meglio e anche per poter accogliere quante più nozioni possibili per avvicinarsi alla verità". E da quella distanza - giusta come il dubbio di un bravo cronista - Francesco Rosi ha saputo osservare, raccogliere notizie, verificare ipotesi, proporre tesi, mettere in dubbio. Ecco, nei film di Rosi il dubbio che le cose non stiano come sembrano, che la verità sia qualcosa di diverso è senz'altro il fulcro di tutto. Francesco Rosi nasceva un secolo fa - il 15 novembre 1922 - a Napoli, lì dove vennero alla luce il suo estro, la sua fantasia e quel profondo senso del dovere con cui ha saputo dipingere con arguzia, competenza, anche testardaggine, affreschi poco limpidi - in tutti i sensi - del nostro Paese. 





"Penna" prodigiosa passò dalla carta stampata al teatro e al cinema, barcamenandosi tra articoli e sceneggiature, prima di esordire dietro la macchina da presa negli anni '50, con due pellicole che mettevano in risalto drammi, sofferenze, inventiva e furbizie del popolo partenopeo: "La sfida" e "I magliari". Ma sarà il 1962 a fare di Francesco Rosi quell'osservatore attento, quell'acuto indagatore delle viscere delle ingiustizie umane e sociali, dei tanti drammi che hanno funestato l'Italia. 


Da sinistra, Renato Salvatori, Alberto Sordi, Aldo Giuffré e Nino Vingelli ne "I magliari" (1959).


Con "Salvatore Giuliano", la vicenda della morte del "re di Montelepre", il pericoloso bandito che seminava terrore nella Sicilia del Dopoguerra, Rosi iniziò a raccontare quegli intrecci tra Mafia, Politica e Poteri Forti che sarebbero stati i principali "attori" dei più grandi misteri italiani. 


Rod Steiger ne "Le mani sulla città" (1963).


L'anno successivo, con Rod Steiger e "Le mani sulla città", portò invece in luce quel dilagare di corruzione, affari sporchi, malavita e politica che caratterizzarono non solo "l'era Lauro" al comune di Napoli (a cui i fatti si ispiravano) ma molti altri centri nazionali alle prese col "Boom edilizio" degli anni '50 e '60. Con  "Il caso Mattei" (1972) e le sapienti doti drammaturgiche di Gian Maria Volonté Rosi tornò a porre interrogativi sulla misteriosa scomparsa del presidente dell'ENI avvenuta dieci anni prima. E sempre con Volonté, qualche anno dopo, portò in scena il dramma della povertà del Sud, perduta tra false promesse e vera miseria con "Cristo si è fermato a Eboli" - dall'omonimo romanzo di Levi. 


                                                                             
Gian Maria Volonté ne "Il caso Mattei" (1972).

                     


Narrazione, cronaca, storia, corruzione, politica, criminalità, emozioni, sensazioni, dubbi. Potremmo citare tante altre opere di Rosi, ma quello che verrebbe fuori sarebbe sempre questo: la capacità di far saltare la mosca al naso, di incitare a mettersi ad una certa distanza dalle cose, ad osservare con attenzione, a non lasciarsi ingannare dalle parole ma analizzare i fatti per quel che sono. Soltanto così, secondo il cineasta, è possibile comprendere la verità, o se non altro avvicinarla. Questo è stato Francesco Rosi, questo è stato il suo cinema. L'esercizio del dubbio come prova dell'essere delle cose.



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