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 GARY COOPER, LA LEGGENDA DI UN EROE GENTILUOMO


 Era l'epoca degli eroi senza macchia e senza paura. Quelli dalla "Colt facile" e lo sguardo di vetro sotto la falda del cappello. John Wayne e Gary Cooper furono coloro che crearono il mito del West. Praterie sconfinate, mandrie di bufali, assalti alle diligenze, e loro lì, in tutta la loro robustezza fisica e morale, a salvare il mondo dalla cattiveria. Gary Cooper, però, fece ancora di più. Portò se stesso sul set. Alto, aitante, affascinante, elegante anche col fazzoletto al collo e le pistole appese sui fianchi, divenne ben presto l'emblema dell'eroe positivo, dotato di ferrei principi.



Un vero gentleman dell'aurea collina di Hollywood, dove tra gli anni '20 e gli anni '40, da Frank James Cooper, originario del Montana - dove nacque il 7 maggio 1901 -, figlio di padre inglese e madre americana, divenne Gary Cooper ed entrò di diritto nella storia del cinema. Anche se, il suo sogno, era fare il fumettista. Cooper amava disegnare, ma non appena vide che la carriera di vignettista non faceva per lui, dopo aver svolto qualche altro mestiere, a sedici anni, si ritrovò come comparsa in un film. 


Gary Cooper con Betty Jewel ne "Il demone dell'Arizona" (1927) di John Waters.


Da quel momento, la sua vita cambiò radicalmente, e Gary Cooper si trasformò nell'attore che tutti abbiamo amato: bello, affascinante, onesto, coraggioso. Messo sotto contratto dalla Paramount, Gary Cooper fu consacrato ad eroe dei film Western, protagonista di imprese e cavalcate spettacolari (sapeva andare a cavallo fin da bambino). Da "Il demone dell'Arizona"  a "L'ultima carovana", da "Nevada" a "La conquista del West" fino al suo massimo successo, "Mezzogiorno di fuoco" di Fred Zinnemann che gli valse il secondo Oscar della sua carriera.


In alto, Gary Cooper con Jean Arthur in "È arrivata la felicità" (1936) di Frank Capra.
In basso, Gary Cooper ne "Il sergente York" (1941) Howard Hawks.


Il primo, invece, lo aveva conquistato grazie a "Il sergente York", un altro personaggio eroico ma realmente esistito. Ma ottenne un'altra nomination all'Oscar nel 1936 per "È arrivata la felicità" di Frank Capra: una commedia brillante che in qualche modo lo allontanò dal suo habitat naturale, svelandone però le sue qualità attoriali in senso più ampio. Infatti, un'altra candidatura all'Oscar arrivò anche nel 1944, grazie alla sua interpretazione di Robert Jordan in "Per chi suona la campana", tratto dall'omonimo romanzo di Hemingway.


Gary Cooper in "Mezzogiorno di fuoco" (1952) di Fred Zinnemann.


A partire dagli anni '50, però, le sue partecipazioni divennero sempre meno incisive. Nel 1959, tuttavia, interpretò "Cordura", l'apice, potremmo dire, della sua avventura nel West. Nello stesso anno venne anche in Italia, ospite de "Il Musichiere" di Mario Riva, dove diede gran prova della sua affabilità e della sua simpatia.


In alto, Gary Cooper con Ingrid Bergman in "Per chi suona la campana" (1943) di Sam Wood.
In basso, con Rita Hayworth in "Cordura" (1959) di Robert Rossen.


Perché nei suoi eroi, lo dicevamo, Gary Cooper portò molto di sé. La sua gentilezza, perfino il suo sorriso, celato agli inizi della carriera e poi svelato senza riserve, come un tocco in più. Un sorriso che iniziò a spegnersi lentamente negli ultimi dieci anni di vita, i più difficili. Accanto ad una carriera che andava via via sfumando, ci si mise anche la malattia. Il 13 maggio 1961, ormai da quasi un mese costretto a letto, nella sua villa a Los Angeles, Gary Cooper se ne andò, portato via da un cancro alla prostata, accudito dalla moglie, Veronica Balfe, e dalla figlia Maria. 


Gary Cooper con Mario Riva ne "Il Musichiere" (1959).


Pochi mesi prima, aveva ricevuto l'Oscar alla carriera, ma senza la possibilità di ritirarlo personalmente. Ma la sua immagine apparve ancora sul grande schermo, nel suo ultimo film, "Il dubbio" di Michael Anderson, la sua ultima fatica, uscito poco dopo la sua scomparsa.

Perché un altro aspetto che caratterizzò la sua vita, sia fuori che dentro il set, fu il dovere. Gary Cooper continuò a lavorare anche quando non ne aveva più voglia, anche quando la vecchiaia cominciava ad affaticarlo, ancor prima della malattia. Lui continuò a donarci il suo talento, ad emozionarci con la sua voce (per noi italiani, quella del grande Emilio Cigoli) e le sue interpretazioni, portando avanti il suo impegno, fino in fondo. Come un vero galantuomo, prima che eroe. E a sessant'anni dalla sua scomparsa e a ben centoventi dalla sua nascita, il suo fascino e la sua leggenda continuano a vivere non solo negli annali del cinema mondiale, ma soprattutto nel ricordo di chi lo ha amato e continua a farlo.

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