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 SERGIO AMIDEI, LE PIU' BELLE "PAGINE" DEL CINEMA ITALIANO


 Fotogrammi di un cinema perduto. Angoli di una realtà osservata nei suoi punti più oscuri, nei suoi momenti più bui. Ma anche in quelli più semplici e gioiosi. Era l'Italia del Dopoguerra quella descritta da Sergio Amidei attraverso fiumi d'inchiostro che hanno inondato il Paese di pellicole indimenticabili, tanto quanto i loro interpreti. La sua vicenda artistica iniziò per caso, a Torino, dove si trasferì dalla natia Trieste - città in cui nacque il 30 ottobre 1904. Era ancora uno studente quando venne scritturato come comparsa in un film, ma ben presto capì che era più semplice raccontare che interpretare. Più incline alla sua natura schiva e riservata. 



Basti pensare che è stato autore delle più belle opere della rinascita cinematografica del Dopoguerra, dal neorealismo alla commedia sentimentale (neorealismo rosa), eppure il suo nome spesso scompare dietro quello di "maestri" quali Roberto Rossellini e Luciano Emmer. Perché Sergio Amidei cominciò a scrivere fin dalla fine degli anni '30, lavorando con registi come Carlo Campogalliani e Carmine Gallone, ma fu nel bel mezzo della guerra che la sua "penna" divenne tanto preziosa in un periodo di stenti e miseria. E proprio la povertà, le privazioni di un popolo stanco e affranto, emergono pienamente dal suo primo capolavoro: "Roma città aperta", uscito nel 1945 e realizzato quando ancora la Capitale era occupata dai nazisti. Amidei, d'altronde, raccontò in parte ciò che aveva vissuto sulla propria pelle, partecipando attivamente alla Resistenza, collaborando con "nomi" illustri della lotta partigiana come Nilde Iotti e Palmiro Togliatti, insieme a colei che allora era la sua compagna, Maria Michi, da lui resa celebre come attrice, scritturandola come antagonista della Magnani nel sopracitato capolavoro neorealista. Ma Amidei realizzò con Rossellini molti altri film: da "Paisà" (1946) a "Stromboli terra di Dio" (1950) fino a "Il generale Della Rovere" (1959), con uno straordinario Vittorio De Sica.







In alto, le locandine di alcuni tra i più celebri film scritti da Amidei.

Con quest'ultimo, tuttavia, Amidei scrisse anche altre due "perle" del cinema neorealista, come "Sciuscià" (1946) e "Ladri di biciclette" (1948) - anche se la sua firma non risulta. Un altro sodalizio importante fu poi quello con Luciano Emmer, per cui scrisse celebri film come "Domenica d'agosto" e "Le ragazze di piazza di Spagna", ancora legati alla narrazione neorealista ma meno drammatici e più vicini alle tematiche della commedia sentimentale. Genere in cui Amidei diede gran prova di sé negli anni '50, collaborando con Gianni Franciolini alla stesura di affreschi genuini della Roma popolare del Dopoguerra, come "Racconti romani" (1953) e "Le signorine dello 04" (1954).

A partire dagli anni '60, poi, la sua vena creativa ampliò molto di più i propri orizzonti, passando da opere storico/drammatiche ("Il processo di Verona" di Lizzani) alla "commedia all'italiana"("Il medico della mutua" di Zampa) fino a due opere fortemente ciniche e cruente, come "Detenuto in attesa di giudizio" (1971) di Nanni Loy e "Un borghese piccolo piccolo" (1977) di Monicelli, entrambe interpretate da Alberto Sordi. Ma i tempi erano cambiati. Il suo occhio clinico, forse, era stanco di osservare una realtà profondamente diversa, piena di malvagità e di sofferenze di natura completamente opposta a quella del Dopoguerra, le cui "fotografie" gli procurarono ben quattro candidature agli Oscar. Tuttavia, dopo la sua scomparsa, avvenuta il 14 aprile 1981, Sergio Amidei si guadagnò due David di Donatello per le sue ultime due sceneggiature: "Storie di ordinaria follia" (1981) di Ferreri e "Il mondo nuovo" (1982) di Scola. Gli ultimi riconoscimenti per una carriera straordinaria, vissuta in silenzio nonostante successo e affermazione. Un talento che è giusto ricordare, ad ormai quarant'anni dalla sua scomparsa, quale ringraziamento per aver scritto, a mio avviso, le più belle pagine del cinema italiano.





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