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TURI FERRO, UN SECOLO DI "PASSIONE"


"Gli artisti non muoiono mai", è una frase fatta. Forse banale, ripetuta puntualmente ad ogni "coccodrillo" dedicato alla dipartita di un grande "maestro", che si parli di cinema o di arte in senso più ampio. Ciononostante in questa frase, così apparentemente semplice, si nasconde un grande vantaggio che solo gli artisti hanno: sopravvivere a loro stessi e al proprio corpo. Sono infatti trascorsi ben cento anni dalla nascita di Turi Ferro, e fra pochi mesi saranno ben venti dalla sua scomparsa, ma la sua "anima" è ancora qui con noi.




E non poteva essere diversamente per chi, come pochi, ha dedicato interamente la propria vita all'arte, fin dai primi vagiti, nella sua Catania - dove nacque il 10 gennaio 1921. Figlio di un attore dilettante, Salvatore "Turi" Ferro cominciò da ragazzino ad esibirsi in alcune filodrammatiche, mantenendo accesa questa sua passione anche durante la Seconda guerra mondiale, al termine della quale la sua stella iniziò a brillare non spegnendosi più fino alla morte, ad ormai ottant'anni. Dotato di una vis recitativa istintiva e appassionata, si fece portavoce della sua terra, portando in scene le più belle opere siciliane, passando da Giovanni Verga a Leonardo Sciascia, da Vitaliano Brancati a Lugi Pirandello, per il quale provava un amore incondizionato. Il suo primo "incontro" con il maestro di Girgenti avvenne alla fine degli anni '40, quando recitò - nei panni del mago Cotrone - ne "I giganti della montagna", opera incompiuta del drammaturgo siciliano. Da allora il suo "maestro" non ebbe più segreti per lui: "Il fu Mattia Pascal", "Pensaci, Giacomino!", "Liolà", "Sei personaggi in cerca d'autore" sono solo alcune delle più celebri opere di Pirandello che Turi Ferro fece sue, infilandosi nei panni di quei personaggi come pochi hanno saputo fare. 



Turi Ferro ne "I giganti della montagna" (1967-1968), regia di Giorgio Strehler.


Quasi sempre affiancato dalla moglie, Ida Carrara, con la quale alla fine degli anni '50 fondò l'Ente Teatrale di Sicilia, poi Teatro Stabile di Catania, che divenne la sua arena prediletta. Da lì, la sua arte non ebbe più confini facendo di lui uno dei più grandi interpreti del nostro teatro, in grado di portare a livello nazionale (sostenuto da registi come Squarzina e Strehler) quelle "storie" della sua Sicilia, divenuti drammi universali, valicando i confini dell'isola e risalendo lungo lo Stivale con la stessa potenza del suo immenso talento. 



Turi Ferro con Ave Ninchi in "Liolà".



Un talento che, d'altronde, era anch'esso universale, tanto da consentirgli di passare dal teatro dialettale a quello classico (Shakespeare ad esempio) con la medesima naturalezza e con altrettanta immedesimazione. Una passione, insomma, che emerse anche nelle sue frequenti apparizioni televisive che gli diedero grande popolarità. Turi Ferro, infatti, diede corpo ed anima al maresciallo Arnaudi, nato dalla "penna" di Mario Soldati e da questi portato sul piccolo schermo nel 1968, nella fortunata serie "I racconti del maresciallo" (in cui lo stesso Soldati recitava al suo fianco). Ma soprattutto recitò in numerose trasposizioni televisive di opere teatrali, come "Mastro Don Gesualdo" e "I Malavoglia" di Giovanni Verga.



Turi Ferro (a sinistra) ne "I racconti del maresciallo".


Il cinema, invece, ebbe molte meno opportunità da offrirgli, pur avendogli dato occasione di lavorare con registi importanti come Florestano Vancini, Mauro Bolognini e i Fratelli Taviani (in particolar modo nella loro opera prima, "Un uomo da bruciare", nel 1962).

Dopotutto, tempo a disposizione non ne aveva poi molto, visto che il palcoscenico, il suo grande amore, non gli lasciava molto spazio. Lì, su quelle assi di legno che lo videro emergere ancora sbarbatello, Turi Ferro invecchiò con saggezza, raccontando la sua terra, amando, odiando, dando pieno sfogo ai propri desideri, ai suoi pensieri, fin quasi alla fine dei suoi giorni. Infatti "La cattura", altra celebre novella pirandelliana riadattata da un altro grande siciliano, Andrea Camilleri, andò in scena allo Stabile di Catania solo quattro mesi prima della sua scomparsa, avvenuta a causa di un infarto l'11 maggio 2001. L'unico "colpo di scena" in grado di portarlo via dalle quinte di un teatro, e per sempre.



Turi Ferro ne "La cattura".



Eppure su quest'ultima affermazione è opportuno un chiarimento, perché come dicevo prima, ad essere andato via è soltanto il suo corpo. La sua "anima" di eclettico cantore della Sicilia, di raffinato maestro del palcoscenico, continua invece a frequentare quei luoghi  in cui la sua arte ancora "brucia": di passione, di emozioni e di ricordi.


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