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TINO SCOTTI, LA PAROLA CHE “NON” BASTA


Era più milanese della Madunina e del Panetùn. Il suo Cavaliere era l’incarnazione stessa della Milano del Dopoguerra. Quella del “Ghe pensi mi”, la frase nata sui palcoscenici della rivista e portata sul grande schermo col suo fare elegante e un po’ sbruffone. Perché Tino Scotti, col suo baffo a pettine, gli abiti di sartoria, i guanti bianchi e il bastone nella mano destra, mentre la sinistra gesticolava nervosa accompagnando il suo linguaggio sempre ricercato, era in realtà l’incarnazione del falso mito, del buon uomo che vorrebbe apparire brillante ma è soltanto un vanesio alla ricerca di attenzioni. 





Ma in realtà, Tino Scotti, oltre il personaggio, brillante lo era per davvero. Giovane promessa del calcio nelle giovanili dell’Inter, disegnatore e grafico pubblicitario  per sbarcare il lunario, trovò nel teatro il luogo in cui esprimere al meglio se stesso. Occhi strabuzzati, sorriso buffo e un linguaggio forbito fecero dei suoi personaggi delle macchiette perfettamente riuscite, trasposte dai palcoscenici della rivista, con testi scritti con Marcello Marchesi e Vittorio Metz, al varietà radiofonico fino al cinema, dove non solo il Cavaliere (portato sul grande schermo per la regia di Steno e Monicelli) col suo “Ghe pensi mi” ma molti altri personaggi - impiegati, capistazione, professori - misero in luce la sua simpatia e il suo humor molto particolari. Anche se Tino Scotti non si limitò soltanto a questo. Egli dimostrò di possedere le piene qualità dell’attore, passando con disinvoltura dalla allegra e scanzonata verve dei suoi personaggi alla serietà della prosa, cimentandosi con Shakespeare e Goldoni sotto la regia di grandi come Strehler ed Enriquez. Tuttavia, per molti, Tino Scotti rimase semplicemente se stesso: gaudente ed eccentrico professore alla ricerca del termine più adatto nel Carosello del confetto Falqui, promosso al grido di “Basta la parola”. Per descrivere al meglio lui, invece, a quarant’anni dalla scomparsa - avvenuta il 16 ottobre 1984 -, non basta forse l’intero vocabolario. A meno che non si tratti del “Ghe pensi mi” e dell’essenza stessa dell’essere meneghino, scomparsa come la nebbia, il teatro di rivista e il buongusto.


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