UBALDO LAY, INDAGINE SU UN UOMO DIVENTATO SHERIDAN
Un ufficio avvolto dal fumo delle sigarette, la lampada accesa sulla scrivania, un uomo in un impermeabile bianco. Bastava questo, nell’Italia degli anni ’60, per portare un po’ d’America sul piccolo schermo. E così, in uno studio televisivo, prendeva vita il dipartimento di polizia di San Francisco, dove ad assicurare alla giustizia criminali di bassa lega o gangster di grande infamia c’era lui, Ezechiele Sheridan. Perché dire Ubaldo Lay, forse, non significa dire nulla. Ma parlare di Sheridan, del tenente Sheridan, significa invece svelare un mondo custodito nelle Teche Rai e nel cuore di milioni di italiani.
Classe 1917, romano, volto affilato e spigoloso, Ubaldo Lay è stato molto più che quel personaggio lì, eppure ancora oggi la memoria di lui è legata alle sue indagini in Giallo club e in alcune miniserie tv che tra gli anni ’60 e ’70 ne fecero una piccola star. Diplomato all’Accademia d’arte drammatica, giovane attore in scena con Elsa Merlini prima, Anna Proclemer poi, Ubaldo Lay era approdato alla radio nel Dopoguerra, grazie a una voce particolarmente riconoscibile, che gli valse anche il Microfono d’argento nel 1951. Nel frattempo era arrivato il cinema, dove tuttavia rimase soltanto uno dei tanti attori di contorno, spesso nelle vesti del cattivo (memorabile come antagonista di Totò e Aroldo Tieri in Totò sceicco). Tuttavia, la sua carriera sembrava non decollare. Fino a quando, tra sceneggiati e opere di prosa, la neonata Tv gli offrì la grande occasione: diventare immortale. Ubaldo Lay non lo sapeva, ma quell’impermeabile bianco, indossato per la prima volta nel 1959, gli sarebbe rimasto cucito addosso. Tra colpi di pistole, scene del delitto, uomini abbietti, donne affascinanti e manipolatrici, giovani belle fragili e indifese, uomini dal volto sinistro, colleghi fidati su cui poter sempre contare, modi bruschi e bicchieri d’alcol accompagnati da nicotina Ubaldo Lay divenne un piccolo eroe. L’eroe di chi guardava all’America con fascino e ammirazione, anche se si trattava soltanto di finzione scenica. Di una metropoli in preda al crimine ricostruita in uno studio televisivo, di pistole che sparavano a salve dalle abili mani di attori per la maggiore di formazione teatrale, come nei migliori sceneggiati del tempo. Eppure, in quella finzione, Ubaldo Lay era autenticamente se stesso. Infilato nel suo bianco trench, con la sigaretta all’angolo della bocca e lo sguardo concentrato, il tenente Sheridan divenne lo specchio di un uomo che aveva studiato tanto, affrontato il teatro, il cinema, partecipato a gloriosi sceneggiati (indimenticabile il perfido Edward Murdstone nel David Copperfield di Majano), ma che solo in quei panni, seduto dietro a una scrivania, era diventato un mito. E in un ufficio fumoso e malinconico, dentro un soprabito ormai gualcito e con in volto i segni del tempo che passa, tra qualche ruga e i capelli bianchi, Ubaldo Lay regalò l’ultima immagine di sé e del suo alter ego, pochi mesi prima di andar via per sempre, quarant’anni fa, il 27 settembre 1984, stroncato da una emorragia cerebrale. Si trattava di Indagine sui sentimenti, miniserie in cui il tenente Sheridan, ormai in pensione, veniva chiamato dalla televisione per svolgere un’inchiesta sul cambiamento dei sentimenti e delle passioni umani nella società contemporanea. Un’indagine complessa, dai forti risvolti psicologici e antropologici. Un’indagine che mirava a investigare l’animo umano e forse a dare una risposta anche alla sua personale esperienza. Quella di un attore diventato celebre e di un uomo diventato Sheridan.
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