ENZO TORTORA, IL TRAMONTO DI UNA VITA
«Dunque, dove eravamo rimasti? Potrei dire moltissime cose e ne dirò poche. Una me la consentirete: molta gente ha vissuto con me, ha sofferto con me questi terribili anni. Molta gente mi ha offerto quello che poteva, per esempio ha pregato per me, e io questo non lo dimenticherò mai. E questo "grazie" a questa cara, buona gente, dovete consentirmi di dirlo. L'ho detto, e un'altra cosa aggiungo: io sono qui, e lo sono anche per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti e sono troppi. Sarò qui, resterò qui, anche per loro. Ed ora cominciamo, come facevano esattamente una volta».
Con queste parole, precedute da una standing ovation mentre rientrava in quegli studi dopo ben cinque anni, Enzo Tortora era pronto a ricominciare "come una volta", dove "erano rimasti" i suoi spettatori prima che una nuvola nera cominciasse a scaricare una pioggia di odio e disprezzo sul suo volto di uomo perbene. Era il 17 giugno 1983 quando Enzo Tortora, popolare conduttore televisivo della Rai, veniva prelevato dai carabinieri, ammanettato ed esposto a una gogna mediatica senza precedenti.
Flash fotografici, articoli taglienti, immagini proiettate all'infinito e senza pietà sui nostri schermi per svelare un'apparente verità per molti scontata: Enzo Tortora non era l'uomo che tutti credevano fosse. Il presentatore cordiale e gentile, in giacca e cravatta, il padre di famiglia, l'amico dei telespettatori del venerdì di Rai due che aspettavano che il pappagallo dal becco giallo parlasse prima che il Big Ben dicesse stop. Quella mattina di giugno, invece, a fermarsi fu la vita di Tortora. Accusato da alcuni pentiti, venne identificato come un illustre affiliato della NCO (la Nuova Camorra Organizzata) facente capo a Raffaele Cutolo, 'O prufessore. Accuse dichiarate senza alcun pudore per ottenere benefici in sede giudiziaria. Accuse da prendere con le pinze e che invece vennero assunte come veritiere senza ombra di dubbio. Enzo Tortora e la sua famiglia si ritrovarono così in un inferno fatto di disprezzo, accuse infamanti e improperi nei confronti di un uomo che per decenni, dai tempi di "Campanile Sera", negli anni '50, aveva allietato tra radio e televisione le giornate degli italiani. Mentre era in carcere, cercando compagnia nei suoi amati libri e nella vicinanza dei suoi compagni di cella, fuori si scatenavano odio e veleno, da parte di molti che non sembravano avere alcun dubbio. Tanti, invece, non dubitarono mai della sua innocenza, anche se essa venne appurata soltanto quattro anni dopo, il 17 giugno 1987, con sentenza di Cassazione. In mezzo ci furono tante cose: i problemi di salute di Tortora, gli arresti domiciliari, la candidatura a europarlamentare con i Radicali di Pannella, le lettere di sostegno sincero ricevute dal conduttore e una giustizia lenta, troppo lenta. Una giustizia fallibile e un mondo, quello della comunicazione, scagliatosi contro di lui con un interesse morboso, pronto a distruggerne il mito. L'amarezza, l'umiliazione, l'onta subita segnarono Enzo Tortora irrimediabilmente, nel corpo e nell'animo. Con quelle parole citate all'inizio, Tortora riabbracciò il suo pubblico con una nuova puntata di "Portobello" il 20 febbraio 1988, cercando di lasciarsi alle spalle quell'incubo. Ma era troppo tardi: solo tre mesi dopo, un cancro insinuatosi nel suo corpo già debilitato se lo portò via per sempre. Dove eravamo rimasti? A quell'alba, quella triste alba di giugno di quarant'anni fa, l'inizio di un dramma e il preludio a un tramonto: quello di una vita.
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