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 GALEAZZO BENTI, IL SORRISO DELLA RIVALSA


 Capita a molti attori di rimanere imprigionati in un determinato personaggio. Ma in alcuni casi, l'identificazione è talmente profonda da impedire allo stesso di andare oltre, di dimostrare le proprie capacità al di là della maschera. È quanto accadde a Galeazzo Benti, brillante attore del varietà e del cinema negli anni '50, che si trovò quasi "costretto" ad abbandonare il Bel Paese nella speranza di riscattarsi dalla maschera del gagà, o meglio del dandy, come amava dire lui. L'immagine del giovane di sangue blu, elegante e debosciato, affascinante e truffaldino, affrescata in palcoscenico e sul set in memorabili film di Totò, Galeazzo Benti l'aveva nel suo volto aristocratico e nel sorrisetto sotto i baffetti sottili e appuntiti. 




Fiorentino di nascita - avvenuta il 6 agosto 1923 -, erede della nobile dinastia Bentivoglio, antico casato bolognese, fu costretto dal nonno a cambiare il proprio cognome per impedire che la sua illustre famiglia si mescolasse al "depravato" mondo dello spettacolo che il giovane cominciò a frequentare fin dai primi anni '40. Fiore all'occhiello, fazzoletto al collo, cappello a "caciotta" o zucchetto, il conte Galeazzo Bentivoglio divenne Galeazzo Benti, allegro e gioviale ragazzo di buona famiglia frequentatore di spiagge esclusive, giocatore d'azzardo, dongiovanni da strapazzo, raffinato frequentatore di locali notturni popolati da cronici perdigiorno. 


Galeazzo Benti e Totò. In alto ne "L'imperatore di Capri" (1949) di
Luigi Comencini. In basso, in "Totò a colori" (1952) di Steno.


Dalla rivista con Mattòli e Galdieri al cinema con Mastrocinque, Steno e Comencini, Benti divenne l'archetipo del viveur di provincia, raffinato e cialtrone, blasonato e immaturo, dando gran prova di sé quale "spalla" di Totò, in particolar modo nei panni di Dodo della Baggina, nell'esilarante "L'imperatore di Capri", e in quelli dell'eccentrico Poldo di Roccarasata in "Totò a colori". Ruoli disegnati con naturalezza e maestria, esasperando semplicemente la sua "nobile essenza", e questo era il problema. Perché nonostante sporadiche occasioni di mostrare il proprio talento in contesti differenti, diretto da registi come Lattuada ("Il delitto di Giovanni Episcopo") ed Emmer ("Parigi è sempre Parigi"), Galeazzo Benti si era legato talmente tanto a quel cliché da essere ritenuto poco credibile in altre vesti. Quasi stanco e seccato per questo, decise di cambiare aria raccogliendo l'invito ad un festival che si svolgeva a Caracas. Doveva trattenersi il necessario e invece le proposte di lavoro furono talmente allettanti che rimase in Venezuela per più di trent'anni. La nostalgia, però, a un certo punto si fece sentire e così, quando tutti in Italia si erano dimenticati di lui, Benti tornò alla ribalta: imbiancato, barbuto, appesantito ma egualmente charmant, come una volta. Tra sorrisi e amarezze, raccontò la sua storia con il personaggio omonimo di Galeazzo, vecchio attore emigrato in Venezuela tra gli avventori de "La terrazza" di Ettore Scola. 


In alto, Galeazzo Benti con Jean-Louis Trintignant ne "La terrazza" (1980) di Ettore Scola.
In basso, ne "Il conte Max" (1991) di Christian De Sica.


Una storia verosimile adattata per il grande schermo ma profondamente sincera. Il cinema lo riscoprì, lo riscoprì anche la televisione, e tra film e serie tv Galeazzo Benti ebbe la sua magra rivincita, tornando anche a indossare i panni di quella gioventù amata e odiata, elogiata e sofferta. Raccolse infatti il testimone che era stato di Vittorio De Sica, interpretando il conte Max nel remake realizzato da Christian De Sica nel 1991. L'ennesimo, ma gradevolissimo, nobile debosciato, attempato ma arzillo, specchio di una comicità ormai lontana e rimpianta. Insomma, prima che un infarto lo strappasse prematuramente alla vita trent'anni fa esatti - il 20 aprile 1993 -, Galeazzo Benti fece in tempo a rivalersi su chi lo aveva sempre snobbato, considerandolo un ridicolo personaggio d'avanspettacolo, e a cui lui, da buon simpaticone, aveva sempre risposto col sorriso. 

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