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 PARENTI SERPENTI: TRENT'ANNI DI UN CAPOLAVORO DI AMARE VERITÀ


Sorrisi e amarezze. Possiamo scegliere un film a caso "firmato" da Mario Monicelli per constatare che questi due "ingredienti" non mancano mai. Ma se prendiamo "Parenti serpenti", un classico natalizio che quest'anno ha compiuto trent'anni - uscì nelle sale nel marzo del 1992 -, allora a sorrisi e amarezze va aggiunta anche un'altra parola: crudeltà.

Il colpo di scena, sicuramente, è uno dei segreti del "maestro" Monicelli che in questo film non si smentisce per l'ennesima volta. La pellicola viene narrata dalla voce fuori campo di uno dei protagonisti, Mauro, un ragazzino che come ogni anno si appresta a trascorrere il Natale a casa dei nonni, insieme ai genitori e agli zii. La storia comincia il 24 dicembre, a Sulmona, in una famiglia apparentemente come tante. I capostipiti sono Saverio (Paolo Panelli), ex sottufficiale dei carabinieri lievemente rimbambito, e Trieste (Pia Velsi), simpatica e arzilla casalinga. Poi ci sono Lina (Marina Confalone) e Michele (Tommaso Bianco), impiegati comunali a Teramo, genitori di Mauro, e gli zii Monica (Monica Scattini), casalinga, che vive a Roma, e Alessandro (Eugenio Masciari), impiegato postale a Modena, con i rispettivi consorti, Filippo (Renato Cecchetto) e Gina (Cinzia Leone). E infine c'è Alfredo (Alessandro Haber), scapolo e professore in un istituto femminile a Como. 




La Vigilia scorre tranquilla e come tradizione comanda: cenone, messa di mezzanotte - tra parole di circostanza del celebrante e commenti maliziosi sulle famiglie del paese presenti alla funzione -, tombolata, scambio dei regali, foto di rito sotto l'albero, sorrisi, pettegolezzi, ingenui battibecchi e parole affettuose. È però il pranzo del 25 dicembre a scuotere le vite delle quattro famiglie. Trieste, la nonna di Mauro, ammette di essere stanca di vivere da sola con l'anziano marito, e avendo escluso l'ipotesi di andare in uno ospizio, chiede ai figli chi sia disposto ad accoglierli in casa sua entro la primavera successiva, promettendo in cambio la pensione e la casa di famiglia. Tale dichiarazione allarma immediatamente tutti i figli. Inizialmente, i fratelli Lina, Monica e Alessandro decidono che sia più giusto di questo peso si faccia carico Alfredo, l'unico figlio rimasto scapolo e senza impedimenti. Questo, però, genera tutta una serie di complicazioni. Alfredo, infatti, rifiuta categoricamente che possa essere lui a prendersi questa responsabilità, svelando di essere omosessuale e di convivere con un uomo da dieci anni. Inoltre, i fratelli cominciano a ritenere eccessivo lasciare al "sacrificato" oltre la pensione anche la casa che, ad un tavolino del bar del paese, tra parenti diretti e acquisiti, viene "stimata" minuziosamente evidenziandone mobili di pregio, costosi elettrodomestici e ricordi preziosi. 

Così, tra litigi, ripicche, umiliazioni e paure, figli e consorti decidono che l'unica soluzione sia quella di liberarsi dei "vecchi". Per mandare in pensione il vecchio braciere a carbone - con cui i due anziani riscaldavano le fredde stanze della loro abitazione -, regalano loro una stufa a gas, con la scusa di rendere la loro esistenza più calda e comoda. Ma la sera del 31 dicembre, poco dopo la mezzanotte, mentre figli, generi e nipoti sono al Veglione di Capodanno in un locale della città, una improvvisa esplosione fa saltare in aria l'abitazione, ammazzando gli anziani coniugi. Tale drammatico epilogo è narrato da Mauro nel tema che legge ai suoi compagni di classe al rientro dalle vacanze. Candidamente, il bambino si chiede come mai i suoi abbiano dato la colpa alla difettosa stufa, dal momento che la stessa era appunto stata acquistata da poco. Tuttavia, è proprio l'ingenuità del ragazzino a rafforzare la tesi messa in scena da Monicelli e Carmine Amoroso (autore del testo teatrale omonimo da cui il film è tratto e collaboratore alla sceneggiatura insieme a Monicelli, Suso Cecchi D'Amico e Pietro De Bernardi): le ipocrisie di una famiglia piccolo-borghese apparentemente "perbene", ma capace di un gesto così meschino e crudele pur di salvaguardare i propri interessi e la propria  serenità fasulla. Nessuno, infatti, in questa famiglia abruzzese dei primi anni '90 è felice. Non lo è Lina, la mamma di Mauro, nevrotica, infelice e legata ad un uomo fedigrafo (che l'ha tradita con la cognata, Gina, come si scopre durante il film), democristiano per interessi e convenienza. Non lo è Monica, amareggiata per non aver potuto mettere al mondo dei figli. Come non lo è Alessandro, comunista disilluso dalla caduta del Muro (argomenti "caldi" al tempo) - pur avendo trovato lavoro grazie al cognato democristiano - e cieco davanti ai palesi continui tradimenti della moglie Gina, snob e avida di ricchezze, che non fa altro che rimproverare la figlia, grassottella e tonta, che ha come massima aspirazione quella di diventare ballerina di "Fantastico". E, in fondo, non lo è neanche Alfredo, un uomo complessato, fragile e insicuro che per anni ha tenuto celata la sua omosessualità e le sue sofferenze sentimentali. Tutti, però, trovano improvvisamente un punto di vista comune - tra scontri e baruffe - nel volersi liberare del padre e della madre, provvedendo così a soddisfare i propri interessi materiali e, allo stesso tempo, risolvendo un problema che avrebbe turbato per sempre i già precari equilibri familiari. Il tutto, fatto durante le festività natalizie, ovvero nel momento in cui la famiglia vive (o dovrebbe vivere) quel momento di profonda unità, condivisione, tenerezza difficile da raggiungere in altri periodi dell'anno. Ma è soltanto ipocrisia: dietro quei sorrisi, come dicevo all'inizio, si nascondono profonde amarezze per una vita insoddisfacente, dove ricorrenze come il Natale - anche nel senso più "commerciale" del termine, se non in quello religioso - diventano il pretesto per tirare fuori vecchie ruggini e attriti che, purtroppo, si celano anche nelle famiglie più (apparentemente) serene e rispettabili. Tirando fuori anche quella crudeltà che, forse anche biologicamente, si nasconde in ognuno di noi, e può venire fuori all'improvviso, quando la ragione, i sentimenti e il cuore cominciano ad andare in disaccordo. Ma il merito di Mario Monicelli, a mio avviso, oltre quello di offrirci un bellissimo affresco familiare dell'epoca (agli albori del crollo della "Prima Repubblica" e dello scandalo di Tangentopoli), grazie alle performance di giovani (al tempo) e vecchi attori - da Paolo Panelli a Marina Confalone -, è quello di riuscire a farci riflettere con il sorriso, per quanto amaro. Perché il film al suo epilogo è davvero crudele. Il momento in cui viene inquadrata la casa di famiglia che salta in aria, mentre i protagonisti stanno facendo "il trenino" al Veglione di Capodanno, è immediatamente rotto dalla dolcezza della lettura del tema di Mauro, dopo la quale compaiono i titoli di coda con la canzone "Vivere, senza malinconia" riarrangiata da Enzo Jannacci. Questo alternarsi di tragico e comico, di grottesco e sentimentale che ha da sempre caratterizzato la filmografia di Monicelli e che in questa pellicola raggiunge - secondo me - l'apice della perfezione. Ebbene, credo che per celebrare tre decenni di vita di questo piccolo capolavoro, riguardare questo film da una prospettiva differente potrebbe permetterci di riscoprire il vero senso del Natale e di queste festività che ci apprestiamo a vivere.

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