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 ANIME, SOLE E SORRISI: LA FELICITA' DI UN LUOGO "TRISTE"


Non ci riesco. So che non per tutti è così, e lo capisco, ma per me il cimitero non è mai stato un luogo triste, anzi. Il mio approccio col 2 novembre è sempre stato quello di una comune "festa". Molto spesso, quando ero bambino, a scuola facevamo "ponte" tra il 31 e il 2 - specialmente se l'ultimo giorno di ottobre capitava di giovedì o di venerdì. Si trattava della prima "sosta" dell'anno scolastico, preludio alle lunghe vacanze natalizie del mese successivo. Ma il motivo per cui andare a far visita ai miei cari defunti era una "festa" è un altro. Ho avuto la sfortuna di crescere senza i miei due nonni, Andrea e Nicola. Uomini che, nei racconti delle mie grandi nonne, Assunta e Rosa, assumevano le vesti di supereroi. 




Mi piaceva ascoltare la loro storia, conoscere le loro vite. Ero curioso di sapere se somigliavo loro almeno un po', nel volto e nei gesti. Per questo, andare a trovarli al cimitero era per me una normale visita di cortesia. Così è sempre stato, e così è ancora oggi, anche se in quel luogo di serena pace - dove i caldi volti sorridenti dei nostri cari si scontrano col freddo dei marmi che custodiscono i loro corpi dormienti - ci sono tante, troppe persone conosciute quando erano ancora in vita e a cui ho voluto bene. Andare al cimitero appena ne ho la possibilità - non solo per quella "crianza" che il 2 novembre è dovere fare, come diceva Totò nella "Livella" -, magari quando il sole è alto, il cielo è sereno e le cime dei cipressi proiettano lunghe ombre tra loculi e vialetti, è per me una gioia. Passeggiare tra fiori e candele votive, rivedere i volti dei miei cari e di tante brave persone non è soltanto un gesto d'affetto e riconoscenza, ma soprattutto un bisogno. Il bisogno di sentire vicino chi mi ha voluto bene, in modo diverso, in tempi diversi, ma sempre con la medesima gentilezza. Posso così salutare nonna Assunta e nonna Rosa, le cui tombe sono distanti ma le cui vite -  intrecciate dal matrimonio dei loro figli e dalla vicinanza delle abitazioni familiari - sono sempre state unite nell'amore per me, che devo tanto alla loro saggezza, alle loro parole e ai loro preziosi consigli. Ma è un piacere rivedere don Peppino, distinto signore - piccolo di statura ma di grande levatura e simpatia - titolare di una vecchia bottega da rivenditore di gomme nel mio paese, dove ho passato bellissimi pomeriggi da adolescente, parlando di vecchie auto, ascoltando aneddoti sulla nostra città e assistendo a piacevoli discussioni, tra il serio e il faceto. Il nonno "acquisito" che ha saputo darmi - senza neanche saperlo - quel legame fisico che purtroppo non ho potuto avere dal mio. Così come è un piacere incrociare lo sguardo di don Carlo, vegliardo sacerdote a metà strada tra don Camillo/Fernandel e don Matteo/Terence Hill (con tanto di basco e abito talare, ma decisamente più basso di statura) per cui sono stato per anni un fedele chierichetto - ma a quattordici anni avevo già superato il metro e settantacinque d'altezza e tutti mi scambiavano per un seminarista. E poi zio Vito, scomparso appena due anni fa, ex maestro elementare, riparatore di radio e Tv, anch'egli titolare di una piccola bottega - fin dai tempi del padre e del nonno luogo di disquisizioni filosofiche e chiacchierate goliardiche - in cui spesso ho fatto capolino per un saluto e quattro risate. E poi ci sono loro, gli "eroi" dei racconti, ascoltati e ricercati. Uomini e donne che non ho potuto conoscere personalmente ma le cui gesta me li hanno resi vivi e vitali. 

Ebbene sì, io non ce la faccio proprio ad essere triste ogni qual volta vado al cimitero. Certo l'assenza di chi non c'è più fa male. Ma rivederli tutti lì, immaginare le loro anime dialogare piacevolmente, magari in un angolo di verde, sotto i raggi del sole, mi rende felice. E vederci felici, per i nostri cari, è sicuramente la cosa più bella.

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