LEARCO GUERRA, EROE A PEDALI
Era un manovale, abituato ad usare la propria forza poderosa per impastare calce e tirare su muri. La bicicletta la utilizzava come mezzo di trasporto e - inutile dirlo - sapeva ben manovrarla. Forse neanche lui, ormai venticinquenne - era nato, nel mantovano, il 14 ottobre 1902 -, avrebbe creduto di diventare ciò che poi è diventato: un campione. Learco Guerra, con una maglia della Maino (celebre squadra ciclistica dei primi del secolo scorso) e una bicicletta da corsa procurategli da una amico, si presentò alla Milano-Sanremo. Era il 1928: Costante Girardengo lo notò e lo segnalò al patron della Maino, che si era chiesto chi fosse quel giovane che correva coi colori della sua squadra senza farne parte. Era l'inizio di tutto. Guerra incominciò a spingere sui pedali con rigore e professionalità, da buon lavoratore abituato ad abbassare la testa e a faticare, di cervello e di gambe.
Nel 1931 fu il primo ad indossare la "maglia rosa", in quell'occasione istituita al Giro d'Italia, vincendo la prima tappa. "La locomotiva umana" - così come lo definì Emilio Colombo, il direttore della "Gazzetta dello sport" - cominciò la sua corsa. Dal Giro di Lombardia alla Milano-Sanremo, dal Giro d'Italia al Tour de France passando per i Campionati del mondo su strada, Learco Guerra andava dritto verso il traguardo come un treno, spesso vincendo, a volte ottenendo ottimi piazzamenti, quasi sempre prima o dopo "l'Imbattibile" Alfredo Binda, suo coetaneo, col quale diede vita ad una rivalità elegante e rispettabilissima, quasi se non più di quella che, anni dopo, vide dividere i sentimenti degli italiani tra Bartali e Coppi. Il campione toscano, inoltre, fu anche suo gregario, prima che Guerra si ritirasse dalle competizioni per dedicarsi ad altro, pur restando nel suo mondo.
Commissario tecnico della Nazionale, direttore sportivo, scopritore di talenti come Gianni Motta, produttore di biciclette, Learco Guerra era diventato professionista ad un passo dai trenta ma la bicicletta era come una sua prolunga e non l'avrebbe mai abbandonata. Purtroppo ciò accadde prima del tempo. Affetto dal morbo di Parkinson, il "locomotore" a pedali si fermò il 7 febbraio 1963, dopo aver subito due interventi chirurgici al fine di sconfiggere la malattia. L'oblio, però, quello è riuscito a scongiurarlo. La sua aitante figura, il suo sorriso da giovane di belle speranze ricurvo sul manubrio, a centoventi anni dalla sua nascita, continua a parlare di lui, delle sue vittorie e delle sue speranze. Emblema di un tempo di eroi lontani e di memoria viva.
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