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 GIOVANNI FALCONE, IL SORRISO DELLA GIUSTIZIA


"Ci sono stati uomini che hanno scritto pagine / appunti di una vita dal valore inestimabile". Le parole di "Pensa" di Fabrizio Moro sono il segno di ciò che uomini come lui hanno lasciato. Perché se è vero che la morte, apparentemente, cancella d'un tratto una persona, trasportandola nella sola dimensione del ricordo, è anche vero che solo in quella dimensione tale persona può davvero raggiungere l'eternità. Giovanni Falcone morì in ospedale il 23 maggio 1992, dopo che cinquecento chili di tritolo, posizionati su un tratto dell'autostrada che dall'aeroporto di Punta Raisi conduce a Palermo, nei pressi di Capaci, fecero saltare in aria le due Fiat Croma su cui viaggiavano lui, sua moglie Francesca Morvillo, l'autista Giuseppe Costanza e i ragazzi della sua scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Tutti morti, eccezion fatta per l'autista del giudice - che aveva lasciato la guida a Falcone, sistemandosi sul sedile posteriore. Falcone non aveva mai avuto paura. O meglio, aveva avuto sempre il coraggio di non lasciarsi sopraffare dalla paura, come disse lui stesso in un' intervista dopo la fine del Maxiprocesso, istruito nel 1986 dal pool antimafia diretto da Antonino Caponnetto (successore di Rocco Chinnici), che sferrò un duro colpo a Cosa Nostra.



La Mafia, finalmente, era diventato un problema serio, concreto, sotto gli occhi di tutti. Non era più una "invenzione giornalistica" volta a "screditare la Sicilia", come molti affermavano. Anni di indagini, anni di guerre tra due Stati, quello civile e quello "barbarico", con morti da entrambi le parti, tra martiri-eroi (lo stesso giudice Chinnici, il commissario Ninni Cassarà) che avevano lottato al suo fianco, insieme a Paolo Borsellino, e vittime delle faide interne a Cosa Nostra, che portarono alla vittoria dei Corleonesi di Riina sui vecchi capi Mafia facenti capo a Bontate e Inzerillo. Rivoli di sangue che bagnarono la Sicilia, riversandosi in quel mare che ne aveva accolti fin troppi di invasori, fin dalla notte dei tempi. Giovanni Falcone, dicevamo, non aveva avuto paura, ed era andato avanti per la sua strada, scoperchiando un sistema fino ad allora ignoto e mettendo in luce intricati interessi che vedevano connessi a doppio filo lo Stato civile con quello "barbarico". E quel 1992, infatti, decretò anche la fine di quel Paese civile risorto dalle ceneri della guerra e sfociato in un nuovo confitto, non solo mafioso. Una rivoluzione socio-politica che nei primi mesi dell'anno aveva svelato un sistema di finanziamenti illeciti tra privati e enti pubblici in tutta Italia, "Tangentopoli" e il crollo dei partiti della Prima Repubblica. E quello tsunami, di fatto, coinvolse anche lo Stato "barbarico" che, dopo lo scacco subito col Maxiprocesso, iniziò a lanciare segnali di rivalsa. L'organizzazione, lacerata dall'interno e ormai privata di "protezioni", agì con atti dimostrativi volti ad eliminare ex alleati considerati ormai inutili zavorre, come l'onorevole democristiano Salvo Lima, assassinato il 12 marzo. Quel sistema che in parte un altro pool, quello di Mani Pulite, aveva scoperchiato in quei mesi, che intravedeva legami tra Stato e criminalità, aveva radici anche nel fenomeno mafioso. Ma i due giudici, in questa battaglia, sapevano anche di essere soli. Sì, soli. Perché nonostante la scorta, nonostante una vita blindata, al di fuori di ogni minima libertà, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si trovarono ben presto soli e indifesi. Ma continuarono a resistere, continuarono a combattere fino alla fine, andando incontro al medesimo destino (Paolo Borsellino morì neanche due mesi dopo, il 19 luglio, con una autobomba piazzata sotto casa della madre). Ciononostante, come dicevamo all'inizio, la loro morte non ha di certo rappresentato la fine di tutto. Gli uomini sono come le piante. Quando una pianta muore, lascia sempre nel terreno un pezzo di sé: una radichetta, una foglia, un seme. Qualcosa in grado di germogliare e di far rinascere quella pianta più forte di prima. Allo stesso tempo, gli uomini muoiono, ma non le loro idee. "Ci sono stati uomini che sono morti giovani /ma consapevoli che le loro idee / sarebbero rimaste nei secoli come parole iperbole / intatte e reali come piccoli miracoli", diceva ancora Fabrizio Moro, ed è proprio così. Perché quello che oggi si celebra non è l'anniversario della morte di un magistrato e di uomini coraggiosi battutisi per la verità e la giustizia. Quel che oggi celebriamo sono le idee di un uomo che ha combattuto per "spirito di servizio", come riferì in una intervista con un lieve sorriso. Il sorriso della consapevolezza di chi sapeva che quanto aveva fatto avrebbe dato i suoi frutti: quelle idee che germogliano nel giardino della giustizia, come "piccoli miracoli" di consapevolezza che un mondo diverso è sempre possibile.

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