LUIGI CALABRESI, ALL'OMBRA DEI RICORDI
Se si volessero sintetizzare in una sola parola gli anni '70, quelli dello stragismo, dei delitti politici, del "colpirne uno per educarne cento", della "strategia della tensione", del terrorismo di destra e di sinistra e delle BR, credo che il termine più adatto sarebbe questo: distruzione. Distruggere anni di lavoro e di fatica per ricostruire un Paese uscito fuori dalla guerra con le ossa rotte ma, in quel momento, in grado di correre i cento chilometri verso il progresso. Alla fine degli anni '60, il "Boom Economico" era ormai al tramonto. Nelle teste dei giovani, oltre le canzonette "beat" c'erano idee rivoluzionarie. Idee, per la maggiore, del tutto pacifiche. Idee volte ad un cambiamento sociale ancor più radicale, in termini non solo di costumi ma di diritti sociali. Accanto a questi, impegnati in proteste più o meno violente (le lotte studentesche tra i "figli di papà" e i celerini a Valle Giulia dicono tutto), c'era anche chi pensava che questo cambiamento fosse possibile solo mediante armi di neutralizzazione. Una data: 12 dicembre 1969. Una bomba piazzata nella Banca Nazionale dell'Agricoltura in piazza Fontana, a Milano, fu l'inizio di un decennio pauroso. Veri e propri attentati alla stabilità politica del Paese sacrificando vite innocenti. E non mi riferisco soltanto a uomini, donne e bambini trovatisi nel posto sbagliato al momento sbagliato, come accaduto ai tanti vacanzieri presenti nella stazione di Bologna alle 10.25 del 2 agosto 1980. Mi riferisco a carabinieri, poliziotti, magistrati e uomini di Stato "innocenti". Persone che credevano nel cambiamento sociale basato sul diritto e non sull'abuso.
Tra questi, c'era un giovane commissario di P.S. in servizio alla Questura di Milano. Si chiamava Luigi Calabresi, sposato con due figli e il terzo in arrivo. Perché quel bambino era ancora nella pancia di sua moglie Gemma quando, al mattino del 17 maggio 1972, il commissario Calabresi venne freddato con due colpi di pistola sotto casa sua. Ma la sua morte, in verità, fu una lenta agonia. Ci sono molti modi per distruggere una persona, e la morte non è di certo quello più cruento. Luigi Calabresi venne annientato attraverso una campagna diffamatoria che lo additò come "assassino", come servitore di uno Stato persecutore del "popolo proletario". Per capire questo, bisogna tornare indietro di qualche tempo.
Calabresi era nato a Roma, nel 1937. Si era laureato in Giurisprudenza con una tesi sulla Mafia. Aveva poi deciso di entrare in Pubblica Sicurezza, attraverso pubblico concorso, e nel 1966 era stato assegnato alla Questura di Milano, presso l'allora "ufficio politico". Il giovane commissario si trovò subito di fronte alla cruenta lotta al sistema, occupandosi immediatamente della sinistra extraparlamentare. Calabresi era un uomo pacato, sorridente, gentile, di profonda fede cattolica. Un uomo con cui "si poteva parlare", come riferì alla moglie l'anarchico Giuseppe Pinelli, dopo averlo conosciuto. Ecco, fu proprio la misteriosa morte di Pinelli a far divampare la campagna di annientamento del commissario. Dopo la bomba a piazza Fontana, il 15 dicembre 1969 Giuseppe Pinelli si trovava nell'ufficio di Calabresi, per essere interrogato in merito all'attentato. Quella notte, sorvegliato a vista da agenti e sottufficiali, Pinelli precipitò dalla finestra schiantandosi al suolo. Subito si disse che si era suicidato, ma nessuno ci credette. Calabresi venne accusato dell'omicidio dagli esponenti di "Lotta Continua". Lui, invece, al momento del fatto, non si trovava neanche in quella stanza, avendo terminato l'interrogatorio. Ma nessuno credette neanche a questo. Da quel momento, per Luigi Calabresi cominciò l'inferno. Diffamazioni pubbliche a mezzo stampa, lettere intimidatorie, dichiarazioni d'odio e di disprezzo nei confronti di un uomo perbene, un mite funzionario di polizia votato solo al dovere e al rispetto della legge. Quei tre anni e mezzo, fino a quel tragico mattino del 1972, furono un vero e proprio calvario. La sua vita familiare, rallegrata dalla nascita dei figli Mario (oggi giornalista e scrittore) e Paolo, e dalla notizia di un terzo bambino in arrivo (che si chiamerà Luigi) che non fece in tempo a conoscere, divenne il rifugio da un mondo ormai ostile. Il conforto della fede, la certezza di aver sempre operato nel giusto furono l'unica consolazione di una vita spezzata troppo presto. Ma quell'odio, quel rancore proseguì ancora dopo la sua morte. Il suo assassinio venne da molti salutato come un segno di "giustizia", e un anno dopo, al momento dell'inaugurazione di un busto in suo onore nel cortile della Questura di Milano, alla presenza del ministro Mariano Rumor, venne lanciata una bomba che provocò quattro morti e più di cinquanta feriti. Ci vorranno anni di indagini e sentenze per portare alla scoperta dei mandanti e degli assassini: Giorgio Pietrostefani, Adriano Sofri, Leonardo Marino e Ovidio Bompressi, tutti militanti di "Lotta Continua". Tutto questo, però, non restituì di certo un padre e un marito alla sua famiglia, per anni alla ricerca di una verità che sembrava non arrivasse mai. Mario Calabresi, il suo primo figlio, che all'epoca dei fatti aveva due anni e mezzo, ricostruì la vicenda di suo padre e della sua famiglia in un bellissimo libro, "Spingendo la notte più in là", raccontando la sua personale ricerca, tra ricordi familiari, emeroteche e archivi, nel tentativo di dare forma ad un papà vissuto troppo poco per poterlo conoscere e ricordare davvero. Eccetto un momento, immortalato in una foto trovata miracolosamente in cui Mario si trova sulle spalle del suo papà e tocca con la mano un trombone in mezzo alla folla al Raduno degli Alpini di Milano, pochi giorni prima del suo omicidio. Un ricordo offuscato nella sua memoria di bambino e per anni ritenuto una proiezione dei suoi desideri. Questo, a mio avviso, è il segno che quegli "Anni di piombo", quel cielo nero di polvere da sparo e di fitte nubi sulle vite di vittime innocenti non ha distrutto tutto. Non ha distrutto, ad esempio, i ricordi. E all'ombra di quei ricordi, nel cuore delle persone a lui care e tra le pagine di una storia ormai fin troppo chiara nella sua crudeltà, Luigi Calabresi continua ad essere un uomo giusto in un mondo, a volte, ingiusto.
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