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 IL "BUON" PAESE DI DON CAMILLO E PEPPONE


Non è semplicemente un film. Lo definirei un documentario, anzi una candid camera. Una cinepresa libera sul "piccolo mondo di un mondo piccolo piantato in qualche parte dell'Italia del Nord", come recita il narratore subito dopo i titoli di testa. "Don Camillo", il primo capitolo della saga tratta dai racconti di Giovannino Guareschi, compie oggi settant'anni. Era il 15 marzo 1952 quando il regista Julien Duvivier portava sul grande schermo il parroco manesco e il collerico sindaco "rosso" nati dalla penna dello scrittore emiliano e resi vivi e vitali dai corpi e dai volti di Fernandel e Gino Cervi. Umanità, simpatia, resistenza, cooperazione, fede laica e religiosa, buon senso, credo siano queste le parole chiave per comprendere il senso dell'opera guareschiana. Il film racconta le vicende del parroco don Camillo/Fernandel in perenne lite col sindaco comunista Giuseppe Bottazzi/Gino Cervi, detto "Peppone", in un piccolo paese sulle rive del Grande Fiume (il Po) che nella finzione letteraria è un immaginario paese della Bassa reggiana, nel film è invece Brescello. 





Il "mondo piccolo" di don Camillo e Peppone, quello rurale dei borghi e delle campagne emiliane, del mondo contadino ancorato alle proprie terre, di gente semplice divisa tra fede in Dio e ideali socialcomunisti, dove i mariti imprecano e le mogli cercano di "salvarli" facendogli eco con un "Sempre sia lodato". Un mondo in cui le divergenze, però, non impediscono di sentirsi vicini, di essere uniti. La pellicola narra le vicissitudini dei due protagonisti, avversari politici, nemici dichiarati, l'uno con lo sguardo rivolto alla Madre Celeste l'altro alla Madre Russia. Entrambi, tuttavia, sanno di poter contare sul rispettivo rivale per fare gli interessi dei loro paesani. Come quando mungono e danno da mangiare alle vacche del paese, abbandonate a seguito di uno sciopero, pur di non farle crepare. Oppure onorando le ultime volontà dell'anziana maestra del paese, monarchica convinta, che pretende che, alle sue esequie, il feretro sia coperto dalla bandiera reale (il film è ambientato all'indomani del referendum repubblicano), cosa che fa storcere il naso ai comunisti ma che Peppone consente con fermezza e convinzione. Perché dietro i suoi baffoni si nasconde l'anima di un uomo profondamente buono, che aggiunge "Camillo" al nome del neonato figlio Libero Antonio Lenin affinché il parroco lo battezzi. Ed è lo stesso Peppone ad aiutare don Camillo a far trionfare l'amore di due giovani avversato dalle rispettive famiglie, divise da un confine sui propri poderi e da diverse posizioni ideologiche. Ecco, credo che in sintesi il tema di tale pellicola (come dell'intera saga cinematografica e dei romanzi di Guareschi) sia proprio questo: la capacità di andare oltre stupidi litigi, ripicche e ideali politici per riscoprirsi uomini e donne pronti a darsi una mano nel momento del bisogno. Guareschi, scrisse Indro Montanelli, aveva capito davvero cos'era l'Italia del Dopoguerra, e in questo film, come nei successivi, Fernandel e Gino Cervi riuscirono a mettere in scena la realtà di quei racconti e di quei luoghi bagnati dal Grande Fiume e resi fertili di bontà, di tenerezza e d'amore. Dietro i dialoghi di don Camillo col Crocifisso posto sull'altare della Chiesa (tuttora esistente), dietro gli impeti di rabbia di Peppone, si nasconde un universo di umanità, di ottimismo e di fiducia appartenente ad un mondo che sembra lontano anni luce da quello odierno. Eppure in quelle storielle partorite settant'anni fa o poco più, nelle "ramanzine" del Cristo a don Camillo, nei calci ben assestati del curato al suo rivale (perché le mani, come gli suggeriva il Cristo, sono fatte per benedire), in quella religiosità così pura ed ancestrale, e dietro le velleità rivoluzionarie dei comunisti della Bassa, si celano parole ed insegnamenti preziosi che, se fossero riscoperti, a mio parere, permetterebbero al nostro Paese di ritornare ad essere buono e generoso come una volta.

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