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 MUHAMMAD ALI, UN "NOBILE" EROE


"Dentro un ring o fuori, non c’è niente di male a cadere. È sbagliato rimanere a terra". E lui, a terra, non ci poteva proprio stare. Una montagna di muscoli elegantemente sinuosa, un pugno proibito e lo sguardo, scuro ma limpido come il suo volto di ragazzo perbene. Un termine, quest'ultimo, che per molti poco si sposa col pugilato, ma che invece esprime al meglio il senso della "nobile arte": il riscatto, la voglia di farcela nelle avversità, cadere e rialzarsi. Era solo un ragazzino di Louisville, nel Kentucky - dove nacque il 17 gennaio 1942 -, Cassius Marcellus Clay, poi divenuto Muhammad Ali,  quando entrò per la prima volta in una palestra, dopo aver subito un furto. Gli avevano rubato la bicicletta e su suggerimento di un agente che raccolse la sua denuncia, fare boxe l'avrebbe aiutato ad acquistare sicurezza, a difendersi. I suoi guantoni, infatti, divennero ben presto l'emblema del desiderio di rivalsa in un paese dove le persone di colore come lui non erano ben viste. 




Era statunitense, ma di origini irlandesi e afroamericane, e il suo profilo scuro lo rivelava a vista d'occhio. E fu proprio questa la molla che spinse il piccolo Cassius verso la vittoria. Tra un match e l'altro, ancora dilettante, arrivò a vincere l'oro nei pesi massimi alle Olimpiadi di Roma nel 1960. Solo quattro anni dopo, ventiduenne, appena professionista, l'impresa epica: la vittoria per KO contro il temibile "Sonny" Liston dopo otto riprese, guadagnandosi il titolo mondiale. Nel frattempo, Cassius divenne Muhammad Ali, abbracciando la fede musulmana, più vicina al suo desiderio di rispetto e di difesa dei diritti degli emarginati come lui. Da quel momento, le sue vittorie divennero quelle di chi lotta ogni giorno contro i pregiudizi, contro le discriminazioni. Anche per questo, nel 1967, Ali rifiutò di prendere parte alla Guerra del Vietnam. Venne accusato di renitenza alla leva, e il suo nome scomparve per tre anni dalle competizioni sportive. Il titolo mondiale, conservato per tre anni, gli venne sottratto. Era la prima grande caduta, ma Ali riuscì a rialzarsi e a rimettere i guantoni in posizione di attacco. Tornato sul ring, divenne ancora una volta campione mondiale nel 1974, battendo George Foreman, e poi nel settembre 1978 contro Leon Spinks. Ma nonostante la sua testa dura, i colpi subiti, col passare del tempo cominciarono a dare segnali di sofferenza. Nel 1984, infatti, pochi anni dopo il ritiro dalle competizioni, si scoprì malato di Parkinson. Ancora un'altra caduta, ma si rialzò anche da quella. Continuò a lottare su altri fronti, impegnandosi attivamente nel sociale fino alla fine dei suoi giorni. Nel 1996, la sua ultima apparizione nel mondo sportivo: quel "pugno proibito", ormai debole e tremante, riuscì a stringere la fiaccola olimpica nella giornata inaugurale dei Giochi Olimpici di Atlanta. Una ritorno a quella competizione che, qualche decennio prima, lo aveva visto esordire e vincere. Sedici anni dopo, il 3 giugno 2016, l'ultima caduta, l'unica senza riprese. Ormai indebolito dalla malattia, Muhammad Ali morì per problemi respiratori, volando via "come una farfalla" ma questa volta senza "pungere come un'ape", come amava ripetere. E le sue "punture", simbolo di tenacia e di libertà, rendono ancora oggi giustizia ad uno sport che - può piacere o meno - resta l'immagine della voglia di rivalsa di chi ha saputo emergere dal nulla, contando solo sulle proprie forze. Colpo dopo colpo, preso o offeso, ring dopo ring, per noi italiani anche Pietro Carnera, Tiberio Mitri e Nino Benvenuti divennero l'emblema del riscatto sociale. Ma nessuno come Muhammad Ali, al di là della sua personale rivincita, ha saputo portare nella "nobile arte" anche il nobile intento di lottare per la causa comune. E forse, a ottant'anni dalla sua nascita, omaggiare Ali significa soprattutto ricordare il suo impegno per i diritti degli ultimi che, al pari delle sue incredibili imprese, ha segnato la storia sportiva e sociale del Ventesimo secolo.

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