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 INDRO MONTANELLI, LA LIBERTÀ DI UNA "PENNA" SINCERA


 "La libertà è la sincerità. È dire e scrivere quello che uno pensa". Si pennellò con questa frase, Indro Montanelli. La proferì in una delle sue ultime interviste, e in essa si può condensare la sua caratura d'uomo, di giornalista e di osservatore del Novecento. Tutto si può dire di lui: che fosse scorbutico (ma a suo modo simpatico), che fosse polemico, puntiglioso, controcorrente anche, ma non che non fosse sincero. In oltre sessant'anni di carriera, Indro Montanelli non ha mai detto o scritto nulla di cui non fosse convinto.  




 Lo disse pure, una volta: "non ho potuto sempre dire tutto quello che volevo, ma non ho mai scritto quello che non pensavo". Mai, mai Indro Montanelli si è seduto alla macchina per scrivere, la sua inseparabile "Lettera 22", per battere un pezzo della cui bontà non fosse certo. Parole semplici, dirette, contraddistinte da uno stile fluido, frutto di studio e competenza.

Indro Montanelli, infatti, è forse uno dei pochi ad aver frequentato una scuola di giornalismo prima che diventasse quasi un obbligo per chi vuole fare questo mestiere. Venne assunto come apprendista dalla United Press, a New York, quando lasciò le rive dell'Arno - la sua Fucecchio, dove nacque il 22 aprile 1909 -, sbarcando oltreoceano dopo una laurea in Legge ed una in Scienze Politiche all'Università di Firenze. Alla United Press apprese tutto ciò che poteva, ma alla fine degli anni '30 rientrò nell'Italia Fascista che aveva invaso l'Etiopia e continuò a fare l'unica cosa che sapeva fare: scrivere. Nel 1938 entrò al "Corriere della Sera" dove si svolgerà gran parte della sua storia professionale. Inviato come corrispondente per i paesi di mezza Europa nel corso della Seconda guerra mondiale, venne arrestato dai nazisti al termine del conflitto (accusato di aver scritto contro il Regime) che lo portarono nel carcere di San Vittore, a Milano, con l'intenzione di ucciderlo, salvandosi per miracolo.

Lì con lui, Mike Bongiorno, futuro padre televisivo italiano, e Giovanni Bertone, il generale Della Rovere, la spia nazista che rifiutatasi in ultimo di collaborare venne fucilata. Da quella storia Montanelli trasse un soggetto che divenne prima uno straordinario film (diretto da Rossellini e interpretato da De Sica), poi un libro.

 Arrivarono così il Dopoguerra, la Ricostruzione, il Boom Economico, e Indro Montanelli era lì, a raccontare quanto accadeva. Col suo sguardo limpido e autoritario e il suo riso beffardo, Montanelli osservava, rifletteva e poi si metteva a scrivere, facendo tintinnare di gioia i tasti della sua "22". Si compiaceva, si dispiaceva, si indignava anche, molto, e quando qualcosa non gli andava bene, lo diceva senza riserve, anche quando si trattava di opinioni poco condivisibili. Come nel 1958, quando la senatrice Merlin fece chiudere le case di tolleranza in Italia e lui buttò giù il pamphlet "Addio, Wanda!" - dedicato ad una nota prostituta milanese forse conosciuta di persona -, pieno di rancore e nostalgia. Lui diceva sempre ciò che pensava e tirava dritto per la sua strada, senza mai scendere a compromessi. Come nel 1974, quando lasciò il Corriere per divergenze con la nuova direzione e fondò il "suo" quotidiano, "Il Giornale", inaugurando un'altra grande pagina di storia giornalistica, segnata dagli anni di piombo e dall'attentato che subì, nei pressi di casa sua a Milano, quando venne "gambizzato" dalle BR.

Ma anche quella storia si concluse, ancora una volta per volontà sua. Nel 1994, quando Silvio Berlusconi - il suo editore - decise di entrare in politica, Montanelli lasciò la direzione del quotidiano. Ne fondò subito un altro, "La Voce", che però - complice la crisi - ebbe vita breve. Ma nel frattempo tornò alla redazione di Via Solferino, in quei corridoi dove, più di cinquant'anni prima, era stato immortalato seduto su una pila di quotidiani, mentre batteva a macchina. E Montanelli non smise di farlo fino all'ultimo, quando un tumore se lo portò via, il 22 luglio 2001, vent'anni fa esatti.

Finì così la sua storia, parte della storia d'Italia (raccontata da lui più e più volte, in saggi che vanno dall'Impero di Augusto a quello di Mussolini fino alla Prima Repubblica) e soprattutto della storia giornalistica del Novecento. Una storia fatta di lealtà, di polemiche, di contraddizioni, con una sola certezza: quella di aver perso tutte le battaglie possibili ed immaginabili ma non quella che "si ingaggia al mattino, davanti allo specchio". Quella della sincerità verso se stessi e gli altri, ad ogni costo.

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