FERNANDEL, LO STRAORDINARIO SORRISO DI UN PRETE IN CELLULOIDE
Alto, robusto, quarantasei di piede e un sorriso equino che si estendeva da una parte all'altra dello schermo. La sua immagine è quanto di più vivo ci sia nel mondo del cinema, e non solo in Francia. Perché per quanto Fernandel fosse di nazionalità francese - era nato a Marsiglia l'8 maggio 1903 - per noi italiani era a tutti gli effetti un comico nostrano.
Quel volto così buffo, con quei trentadue denti perennemente affilati sotto gli occhietti furbi, è stato per anni quello del prete più famoso d'Italia, pronto a tirare ceffoni e calci - e all'occorrenza qualche colpo di schioppo "cum grano salis" - nella decennale lotta col sindaco comunista per antonomasia, Peppone/Gino Cervi, nella fortunata serie cinematografica tratta dai romanzi di Giovannino Guareschi. Quello tra lui e Don Camillo fu un connubio talmente riuscito che fin dal primo film, nel 1952, tutti fecero fatica ad immaginarsi Fernandel senza l'abito talare. Forse, per questo, destino volle che l'ultimo costume di scena da lui indossato fosse proprio la tonaca di don Camillo. Quel 26 febbraio 1971, quando se ne andò via per un tumore, Fernandel fu costretto ad abbandonare il set del sesto film della sopracitata saga, diretto da Christian-Jacque, che rimase incompiuto.
Fernandel e Gino Cervi in "Don Camillo" (1952) di Julien Duvivier. |
Ma la sua carriera iniziò molti anni prima, agli inizi del secolo. E sebbene l'Italia fosse già nel suo sangue (i genitori erano originari di Perosa, in provincia di Torino), i primi passi come artista li mosse nella sua città natale dopo aver fatto i mestieri più disparati, debuttando nei "café-chantant" come comico e cantante. Fernand Countandin (questo il suo vero nome) divenne ben presto Fernandel. Un nome azzeccatissimo, suggerimento involontario di sua suocera che era solita, ogni qual volta parlava della figlia, riferirsi a lui dicendo "Le Fernand d'elle", ovvero il Fernand di lei, il suo Fernand. E lei era la sua cara moglie, Henriette Manse, sua compagna fino alla fine, che gli diede tre figli: Josette, Janine e Franck.
Comunque sia, Fernandel iniziò a calcare i palcoscenici con gran successo, grazie alla sua verve e alla sua allegria, provocata anche dalle sue movenze buffe e dal volto sorridente. Passò da Marsiglia a Nizza fino a Parigi, dove si stabilirà definitivamente, e dove debuttò con successo alle "Folies Bergère".
Fernandel con Jacqueline Pagnol in "Naïs" (1945) di Marcel Pagnol. |
Ma quel faccione così fotogenico non sarebbe rimasto a lungo dietro un sipario. Fernandel infatti venne ben presto adocchiato dal cinema, ottenendo un successo straordinario in patria, sia in ruoli comici che drammatici (sotto la direzione di Marcel Pagnol).
La fama nel Belpaese, però, arrivò soltanto nel Dopoguerra, grazie alla sopracitata serie di film ispirata ai romanzi di Guareschi e ambientata a Brescello, nella Bassa reggiana. Fernandel, all'inizio, non voleva accettare. Da cattolico osservante, riteneva di non essere degno di quel ruolo e, tra l'altro, credeva troppo "azzardato" un prete che dialogasse "a tu per tu" col Crocifisso. Ma il regista del primo film, Julien Duvivier, riuscì a convincerlo grazie anche all'aiuto di Guareschi stesso.
Fernandel e Totò ne "La legge è legge" (1958) di Christian-Jacque. |
Fu la prima di cinque esilaranti pellicole che videro Fernandel e Gino Cervi accapigliarsi a più riprese tra la canonica e la Casa del Popolo, tra la Bassa allagata dall'alluvione e il viaggio in Russia, con don Camillo sotto le mentite spoglie di tal compagno Tarocci, in grado di far "ravvedere" anche i comunisti più "rossi" e ostinati.
Ma in Italia interpretò un altro ruolo altrettanto fenomenale, quello di Ferdinand Pastorelli: doganiere in un paese al confine tra Francia e Piemonte, che rischia di perdere il posto, la cittadinanza francese e la moglie, finendo anche in galera, poiché scopre, durante l'arresto del contrabbandiere La Paglia /Totò, di essere in realtà cittadino italiano, essendo nato, da madre italiana, nell'albergo posto a cavallo della frontiera, nella cucina che si trova nella parte "italiana" del fabbricato, con tutta una serie di esilaranti equivoci comico-drammatici.
Fernandel ne "Il compagno don Camillo" (1965) di Luigi Comencini. |
Tuttavia, nonostante una fulgida carriera internazionale (sbarcò anche ad Hollywood con "Il giro del mondo in 80 giorni"), un'esperienza da regista e produttore (con una casa di produzione fondata con l'amico e collega Jean Gabin), per noi pubblico italiano Fernandel rimane soprattutto il burbero prete di campagna, pronto ad usare anche i piedi (perché, come gli suggeriva il Cristo, le mani sono fatte per benedire), oltre che la persuasione della religione, per riportare le sue pecorelle all'ovile, nella amena e ruspante oasi socialcomunista della Bassa, proprio lì dove sparò le sue ultime cartucce d'artista. Nell'estate del 1970, Fernandel si trovava infatti in Italia, dopo una vacanza nella sua casa in Costa Azzurra, per le riprese di quello che doveva essere il sesto film della saga, "Don Camillo e i giovani d'oggi".
Fernandel non stava già bene, gli era stato diagnosticato un tumore (anche se lui, a quanto pare, non ne era consapevole). Decise comunque di prendere parte alle riprese, ma un giorno svenne sul set e venne ricoverato in ospedale. Tornò in Francia, e nonostante le sue condizioni non migliorassero lui era convinto di farcela e infatti, nel gennaio successivo, aveva assicurato il regista che sarebbe ritornato al più presto sul set, ma non fu così. La sera del 26 febbraio, nella sua casa di Parigi, Fernandel se andò, lasciando un vuoto incolmabile nella storia del cinema. Una "maschera", la sua, che non riuscì a trovare nessuno in grado di rimpiazzarla. Come non fu possibile rimpiazzare don Camillo, tanto che quel film venne letteralmente abbandonato e un tentativo di "rattoppo" (diretto da Mario Camerini e interpretato da Gastone Moschin nei panni del prelato) fu un deciso flop. E come meravigliarsi d'altronde. Per il pubblico italiano, ma anche per quello francese, don Camillo e Fernandel erano una cosa sola. C'era anche chi credeva che fosse un vero sacerdote. Ricevette anche molte lettere di persone che volevano gli battezzasse i propri figli. Lui di questo si divertiva, rispondendo umilmente di essere "solo" un umile prete in celluloide. Quell'umiltà che conservò fino alla fine e che lo avvicinò sempre di più al suo pubblico che, a cinquant'anni dalla sua morte, continua a ricordarlo con affetto e con simpatia, alla luce di quello straordinario quanto indimenticabile sorriso.
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