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 MARIO MONICELLI: TRA SORRISI E AMAREZZE, FINO ALL'ULTIMO "CIAK"


 Un uomo di novantacinque anni, gravemente malato, crede di aver fatto il suo tempo, di non aver più possibilità se non quella di soffrire e così si butta dal quinto piano dell'ospedale in cui è ricoverato schiantandosi al suolo. Sembra il finale di un film. Una scena perfetta, con la camera che riprende un manichino in volata mentre precipita verso il basso, magari con una melodia tragica, da melodramma del Dopoguerra. Una scena dopo la quale sentire il regista gridare "Stooop!" e concludere così l'ultima sequenza. Ma quell'uomo che precipita non è un manichino, è una persona in carne ed ossa, e quella non è la scena conclusiva di un film, ma un fatto reale. Il cui protagonista, però, è un regista e sceneggiatore amatissimo. Tra i migliori narratori del secolo scorso: Mario Monicelli.



È il 29 novembre 2010 quando, all'Ospedale San Giovanni di Roma, il "Maestro" della commedia all'italiana decide di scrivere ancora una volta un finale che farà storia. Questa volta, però, dopo "la scena" non c'è lo stop ai macchinisti e l'applauso della troupe, ma un silenzio e un' incredulità senza pari. Un colpo di scena che forse nessuno si aspettava. Anche se, da Mario Monicelli, ci si poteva aspettare di tutto. E infatti, riuscì a stupirci ancora, questa volta mettendosi davanti la macchina da presa, e recitando lui stesso il copione. L'ultimo di una lunga serie iniziata negli anni '30 nella sua Roma - dove nacque il 16 maggio 1915, anche se ha fatto sempre credere di essere nato a Viareggio, sua patria d'adozione. Iniziò la sua carriera come sceneggiatore, anche se esordì alla regia già nel 1935, con "I ragazzi della via Pàl". Il "Maestro", però, nacque nell'immediato Dopoguerra, soprattutto dopo il fortunato incontro con altre grandi "penne" del cinema, in particolar modo Stefano Vanzina, in arte Steno.



  Mario Monicelli (a sinistra) con Steno.


Con lui scrisse tra le più belle battute per Totò, che diressero in tandem in ben quattro pellicole, da "Totò cerca casa" (1949) a "Totò e le donne" (1952), passando per lo straordinario "Guardie e ladri" (1951): una perla del neorealismo in chiave comica. Ma con Totò, e da solo, Monicelli realizzò anche il censuratissimo "Totò e Carolina" (1955): un film amato tanto da lui quanto dall'attore, che subì grossi tagli in fase di distribuzione, e ancora oggi raro nella sua edizione originaria.



                             Aldo Fabrizi e Totò in "Guardie e ladri" (1951), tra i più celebri film firmati da Monicelli in coppia con Steno.


E quel film, forse, rappresenta appieno l'idea che Monicelli forma dentro di sé: raccontare la realtà in maniera dissacrante. Scherzare sulle miserie umane, con ironia sì, ma anche con un velo di amara malinconia, che si acuisce sempre di più, seguendo una società in continua trasformazione.



        Totò e Anna Maria Ferrero in "Totò e Carolina" (1955).


Dando inizio a quella che sarebbe divenuta la "commedia all'italiana", a partire da "I soliti ignoti", la sgangherata banda di ladruncoli che tentano il colpo della vita, passando per "La grande guerra" e "L'armata Brancaleone", fino ad arrivare al dittico di "Amici miei" e a "Speriamo che sia femmina", quel che viene fuori è la descrizione di una società in continua evoluzione, fatta di perdenti, truffatori, buontemponi, atipici guerrieri medievali, famiglie allargate, il tutto sul filo di un'ironia che, alla fin fine, getta la sua maschera rivelando una profonda amarezza di fondo.



In alto, Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni ne "I soliti ignoti" (1958).
in basso, Vittorio Gassman e Alberto Sordi ne "La grande guerra" (1959).


Un malessere sociale, un cancro insito nelle pieghe di un'Italia che, gira e rigira, cambia pur restando sempre uguale a se stessa. 




In alto, Vittorio Gassman con Catherine Spaak ne "L'armata Brancaleone" (1966).
In basso, Ugo Tognazzi, Duilio Del Prete, Philippe Noiret e Gastone Moschin in "Amici miei" (1975).




Tuttavia, ciò che Monicelli ha sempre messo in evidenza in tutta la sua produzione è una forte umanità presente nei personaggi più impensabili (come gli sciagurati "Ignoti") e una profonda crudeltà presente, invece, in persone insospettabili (i figli che uccidono i genitori per sbarazzarsene in "Parenti serpenti", o l'onesto padre di famiglia che vendica di sua mano l'accidentale e tragica morte del figlio in "Un borghese piccolo piccolo").



In alto, Alberto Sordi e Vincenzo Crocitti in "Un borghese piccolo piccolo" (1977).
In basso, Giuliana De Sio e Philippe Noiret in "Speriamo che sia femmina" (1986).



                                                                                

Ma nonostante questo una società che, tra luci ed ombre, rivela sempre una possibilità di cambiamento, o comunque l'illusione (e non la speranza, termine che lui non amava) di un cambiamento.



 "Parenti serpenti" (1992).

Un'Italia profondamente diversa da quella da lui vissuta negli ultimi anni, tra la fine del novecento e il nuovo millennio, che lo ha visto "lasciare" il cinema nel 2006 con "Le rose del deserto". Una società in cui non si riconosceva più, una società che (forse) non valeva più la pena raccontare, specialmente da parte di chi, dopotutto, credeva di aver fatto il suo tempo.

Una volta disse che la vita andava vissuta se c'era un senso, una possibilità. Un senso che, forse, quella sera di dieci anni fa credeva di aver perduto, decidendo così di accorciare i tempi, e scrivere per l'ultima volta la parola "Fine", come aveva fatto per più di mezzo secolo. La conclusione di una sceneggiatura strabiliante, durata oltre novant'anni, piena di colpi di scena, risate e amarezze, battute e riflessioni, ma conclusasi come la gran parte delle altre, con un amaro epilogo e un sorriso di scherno alla vita, di cui ancora una volta si era preso gioco come solo lui sapeva fare: con un colpo di scena, dopo un ultimo "ciak".

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