23 NOVEMBRE 1980: "UN'AGONIA" LUNGA QUARANT'ANNI
Novanta secondi. Novanta secondi che sembrarono un'eternità. E dopo, l'inferno. Era il 23 novembre 1980: alle 19.34, una scossa di magnitudo 6.9 della scala Richter si abbatté sul sud Italia, tra la Campania e la Basilicata. Colpì con veemenza, senza pietà, inghiottendo, come un’enorme voragine, ogni cosa. Epicentro in Irpinia, nell’avellinese. Allora internet era fantascienza, i telefonini non erano ancora diffusi. L’allarme venne dato dai radioamatori e da qualche coraggioso che, dai paesi colpiti, si recò a Napoli, ad Avellino o a Salerno, per raccontare cosa stava accadendo.
I primi dispacci giornalistici erano pieni di inconsapevolezza. Nessuno aveva ancora capito davvero cosa fosse successo. Ma bastarono poche ore. I soccorritori, sollecitati subito o quasi, si recarono sul posto, ma non con la celerità necessaria. Forse proprio per quell’inconsapevolezza. Ma anche una volta giunti a destinazione, le operazioni di recupero procedevano a rilento. Due tre giorni dopo il sisma molte persone erano ancora sotto le macerie. Indignazione e profondo rammarico espresse l’allora Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, recatosi in Irpinia due giorni dopo la scossa, il 25 novembre. E lo dichiarò anche pubblicamente, in una intervista televisiva: “Non vi sono stati soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi”.
Stesso sentimento di rammarico dalle pagine de "L'Espresso" emerse dalle parole dello scrittore Alberto Moravia, in un articolo dal titolo “Ho visto morire il sud”, definendo il sisma come “uno degli incubi dell’umanità, uno dei più terrificanti e sentiti”.
E l’indignazione proseguì anche dopo, nel constatare che i fondi previsti per la ricostruzione delle città danneggiate vennero stanziati sì, ma in sovrappiù, falsificando il numero dei centri realmente colpiti (da 300 a 600 circa ) e parte di essi venne “dirottata” su piccole aziende in via di fallimento e colluse con la malavita. Quest’ultima, inoltre, riuscì ad infiltrarsi nella rete della ricostruzione post-sisma. Ma a sottolineare l’entità e la brutalità della calamità che colpì il sud della Penisola, sono i numeri: circa 3000 morti, più di 8000 feriti e quasi 300000 senzatetto. Comuni rimasti isolati per mesi, senza possibilità di comunicare. Alcuni centri, completamente abbandonati dopo il terremoto, divennero città fantasma. Come Conza della Campania, in Irpinia, dove il tempo si è fermato a quel 23 novembre, come in una terrificante istantanea.
Si tratta di fatti letti e riletti, polemiche e drammi raccontati e ripetuti nel corso degli anni, tra conferme, smentite ed omissioni. Ma non è su questo che volevo soffermarmi, bensì su una amara costatazione che lega, in maniera indissolubile, il nostro presente con quel passato. Il dramma di uno dei tanti episodi che hanno segnato l'Italia del secolo scorso, e che - come spesso - hanno colpito il povero meridione che tra alti e bassi e per problemi vari (povertà, calo delle nascite, emigrazioni, spopolamenti e l'attuale pandemia) continua a "morire" proprio come quarant'anni fa.
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