CHARLES BUKOWSKI: L'ARTE DI SOPRAV-VIVERE
"Avrei anche potuto accontentarmi, ma è così che si diventa infelici". Sembra quasi una contraddizione detta da lui. Lo sembra perché in realtà Charles Bukowski felice, "felice" davvero, probabilmente non lo è stato mai. Nei suoi racconti, nei suoi romanzi e nelle sue poesie emerge l'animo di un uomo tormentato, un uomo sofferente. Un malessere che, probabilmente, si è portato dentro fino alla fine, nonostante tutto. La felicità, però, l'ha sempre cercata e non se n'è mai pentito.
Henry Charles Bukowski nasce ad Andrenach, in Germania, il 16 agosto 1920, da madre tedesca e padre americano di origini polacche, ma si trasferisce ancora bambino in America: prima a Baltimora, poi a Los Angeles, dove praticamente passa il resto della sua esistenza.
Il piccolo Charles è un ragazzo intelligente, un po' timido. Frequenta la locale High School, prendendo il diploma, per poi iscriversi alla Los Angeles City College, frequentando corsi di letteratura e giornalismo, ma ci resta poco. Charles non è un ragazzino facile. Ha un rapporto complicato con suo padre, e non sopporta affatto le regole e le imposizioni. In quegli anni, si avvicina al nazismo, ma non lo fa per ideologia - non sapendo neanche effettivamente cosa significasse essere nazista - ma per semplice ribellione. E quella ribellione, quella rabbia, trova ben presto sfogo nella scrittura.
Charles Bukowski scrive, e tanto. Ma inizialmente, ad accettare i suoi lavori sono soltanto piccole riviste, che lo ripagano con poco. E infatti si trova un lavoro per mantenersi. Alla fine degli anni '50 si impiega come postino a Los Angeles, mantenendo - tra alti e bassi - quel lavoro per circa dieci anni. Alla fine degli anni '60, la prima scelta contro " l'infelicità": meglio pochi soldi per fare una vita che ama, che molti per vivere male.
Così, firma un contratto con la casa editrice Black Sparrow che manda in stampa le sue opere, sebbene con una paga molto magra. Dieci anni dopo, Charles Bukowski diventa ciò che è ancora oggi: uno dei più grandi autori della letteratura americana, con lo sbarco delle sue opere anche in Europa. Dal romanzo autobiografico "Post Office" alla raccolta di racconti "Storie di ordinaria follia" - da cui Marco Ferreri trasse l'omonimo film con Ben Gazzara e Ornella Muti -, passando per le migliaia di poesie, la sua opera letteraria è un continuo oscillare tra "rabbia" e "voglia di vivere", alla ricerca di qualcosa che potrebbe definirsi felicità, ma forse non è neanche quello.
Forse si tratta più di una ricerca "senza meta", come il suo scrivere: né influenzato da idee politiche, né da una ideologia ma volto soltanto a scagliarsi contro il sistema e contro se stesso.
Al centro della sua opera due temi ricorrenti; l'amore - il sesso in particolar modo - e l'alcol, di cui inizia a fare uso (e abuso) fin dall'adolescenza. Tutta la sua produzione si nutre di alcool e notti insonni, di sigarette perennemente accese, di donne desiderate, amate, lasciate, odiate.
Una vita, però, sempre volta alla ricerca di sé, a cercare una risposta ai grandi "perché" dell'esistenza. Problemi che, come si evince dai suoi versi e dalle sue parole, lo hanno consumato fino alla fine - sopraggiunta il 9 marzo 1994, a causa di una leucemia fulminante - forse anche più dell'alcol e del fumo.
"Il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso", diceva Ennio Flaiano, ebbene forse questo a Bukowski è capitato. Perché da quando si è affermato come scrittore, sul finire degli anni '70, il suo stile, così provocatorio ed anticonformista, non ha più scandalizzato nessuno, ma è stato pian piano sdoganato e "socializzato". Una parola che stona con i suoi personaggi: così scontrosi, "maledetti", solitari e perduti.
A cento anni dalla sua nascita, però, una cosa forse non l'abbiamo ancora capita. Charles Bukowski credeva davvero nella felicità? Io penso di sì, e credo che lo dimostri questo suo forte accanimento nella ricerca di un qualcosa di "altro", di diverso, di contrario: qualsiasi cosa, pur di vivere (o sopravvivere?) senza accontentarsi.
Henry Charles Bukowski nasce ad Andrenach, in Germania, il 16 agosto 1920, da madre tedesca e padre americano di origini polacche, ma si trasferisce ancora bambino in America: prima a Baltimora, poi a Los Angeles, dove praticamente passa il resto della sua esistenza.
Il piccolo Charles è un ragazzo intelligente, un po' timido. Frequenta la locale High School, prendendo il diploma, per poi iscriversi alla Los Angeles City College, frequentando corsi di letteratura e giornalismo, ma ci resta poco. Charles non è un ragazzino facile. Ha un rapporto complicato con suo padre, e non sopporta affatto le regole e le imposizioni. In quegli anni, si avvicina al nazismo, ma non lo fa per ideologia - non sapendo neanche effettivamente cosa significasse essere nazista - ma per semplice ribellione. E quella ribellione, quella rabbia, trova ben presto sfogo nella scrittura.
Charles Bukowski scrive, e tanto. Ma inizialmente, ad accettare i suoi lavori sono soltanto piccole riviste, che lo ripagano con poco. E infatti si trova un lavoro per mantenersi. Alla fine degli anni '50 si impiega come postino a Los Angeles, mantenendo - tra alti e bassi - quel lavoro per circa dieci anni. Alla fine degli anni '60, la prima scelta contro " l'infelicità": meglio pochi soldi per fare una vita che ama, che molti per vivere male.
Così, firma un contratto con la casa editrice Black Sparrow che manda in stampa le sue opere, sebbene con una paga molto magra. Dieci anni dopo, Charles Bukowski diventa ciò che è ancora oggi: uno dei più grandi autori della letteratura americana, con lo sbarco delle sue opere anche in Europa. Dal romanzo autobiografico "Post Office" alla raccolta di racconti "Storie di ordinaria follia" - da cui Marco Ferreri trasse l'omonimo film con Ben Gazzara e Ornella Muti -, passando per le migliaia di poesie, la sua opera letteraria è un continuo oscillare tra "rabbia" e "voglia di vivere", alla ricerca di qualcosa che potrebbe definirsi felicità, ma forse non è neanche quello.
Forse si tratta più di una ricerca "senza meta", come il suo scrivere: né influenzato da idee politiche, né da una ideologia ma volto soltanto a scagliarsi contro il sistema e contro se stesso.
Al centro della sua opera due temi ricorrenti; l'amore - il sesso in particolar modo - e l'alcol, di cui inizia a fare uso (e abuso) fin dall'adolescenza. Tutta la sua produzione si nutre di alcool e notti insonni, di sigarette perennemente accese, di donne desiderate, amate, lasciate, odiate.
Una vita, però, sempre volta alla ricerca di sé, a cercare una risposta ai grandi "perché" dell'esistenza. Problemi che, come si evince dai suoi versi e dalle sue parole, lo hanno consumato fino alla fine - sopraggiunta il 9 marzo 1994, a causa di una leucemia fulminante - forse anche più dell'alcol e del fumo.
"Il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso", diceva Ennio Flaiano, ebbene forse questo a Bukowski è capitato. Perché da quando si è affermato come scrittore, sul finire degli anni '70, il suo stile, così provocatorio ed anticonformista, non ha più scandalizzato nessuno, ma è stato pian piano sdoganato e "socializzato". Una parola che stona con i suoi personaggi: così scontrosi, "maledetti", solitari e perduti.
A cento anni dalla sua nascita, però, una cosa forse non l'abbiamo ancora capita. Charles Bukowski credeva davvero nella felicità? Io penso di sì, e credo che lo dimostri questo suo forte accanimento nella ricerca di un qualcosa di "altro", di diverso, di contrario: qualsiasi cosa, pur di vivere (o sopravvivere?) senza accontentarsi.
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