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CESARE PAVESE, IL MESTIERE DI SCRIVERE

"Ho condiviso le pene di molti" e "ho cercato me stesso". Frasi che sintetizzano - a mio avviso - la vita e la scrittura di Cesare Pavese. Quelle due frasi erano state da lui vergate a penna su un foglietto, ritrovato all'interno del suo libro, "Dialoghi con Leucò", poggiato sul comodino della camera 346 dell'Hotel Roma, a Torino. Sulla prima pagina di quel libro, il suo "epitaffio": "Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi".




Era il 27 agosto 1950 e l'Italia perdeva uno dei suoi più grandi narratori, che aveva deciso di porre fine alla sua esistenza ingerendo una grande quantità di sonniferi.
Lo aveva "annunciato", diverse volte, anche in quel suo "Diario" ("Il mestiere di vivere") che verrà poi pubblicato soltanto dopo la sua morte. Cesare Pavese aveva avuto molte volte il desiderio di "farla finita". E quel mattino di settant'anni fa, portò a compimento il suo folle progetto, dettato da una vita probabilmente insoddisfacente, minata da dubbi, timori, delusioni.
D'altra parte, la sua esistenza era sempre stata così: in bilico tra mille esitazioni e paure, come uomo ma anche come scrittore. E, probabilmente, fu proprio la scrittura a "ritardare" quel suo insano gesto, compiuto dopo anni di tribolazioni.
La passione per la scrittura si può dire sia nata precocemente, fin da ragazzino, nelle sue amate Langhe, dove nacque, a Santo Stefano Belbo, nel cuneese, il 9 settembre 1908. Un posto a cui resterà visceralmente legato per tutta la vita. Tra quelle colline, divenute poi lo sfondo di molte sue opere (da "Paesi tuoi" fino a "La luna e i falò"), trascorse l'infanzia. Trasferitosi nel capoluogo piemontese ancora adolescente, frequentò il Liceo Massimo D'Azeglio, dove conobbe futuri illustri letterati come Norberto Bobbio, Leone Ginzburg e Giulio Einaudi, per poi iscriversi alla facoltà di Lettere e Filosofia all'Università di Torino. In quegli anni, cominciò ad interessarsi alla letteratura americana e britannica. Si laureò proprio con una tesi sulla poesia di Walter Withman, e, studiando l'inglese, si dedicò ben presto alla traduzione di famosi romanzi, come "Moby Dick" di Herman Melville e il "Dedalus" di James Joyce. Contemporaneamente, insegnò anche come supplente al suo ex liceo.
Ma Pavese era pervaso da un forte malessere interiore, dovuto forse anche alle profonde sofferenze. A soli cinque anni aveva perso il padre, portato via da un cancro, mentre sua madre era morta nel 1930, lasciandolo solo con sua sorella Maria, con la quale convisse fino alla fine.
Era sempre stato un ragazzo introverso, molto sensibile, e forse proprio questo fu la principale causa del suo tormento interiore, che trovò in parte sfogo nella scrittura. Ancora studente iniziò a scrivere le prime poesie. La prima raccolta, dal titolo "Lavorare stanca", venne pubblicata nel 1936 dalla casa editrice di Giulio Einaudi, suo ex compagno di scuola. E proprio con lui aveva cominciato la sua carriera di scrittore, collaborando soprattutto con la rivista "La Cultura" - di cui fu anche direttore -, sulla quale pubblicò diversi saggi sulla letteratura americana. Alla fine del 1936, inoltre, Pavese era appena rientrato a Torino dal confino (durato sette mesi) a Brancaleone, in Calabria, quale antifascista del gruppo Giustizia e Libertà, avverso al Regime. In realtà, lui non aveva mai fatto nulla "contro", non aveva mai effettivamente "militato".
Questo era un altro aspetto del suo malessere: la difficile collocazione dell'uomo nel mondo. Proprio per tale ragione, infatti, più che per convinzione, decise di iscriversi al Partito comunista italiano, e in qualche modo omaggiò questa sua presa di posizione con "Il compagno", opera pubblicata nel 1947.
E proprio i suoi racconti, le sue storie e le sue poesie, svelano più di ogni altra cosa il suo dissidio interiore. Sullo sfondo, le campagne delle Langhe: paesaggi ameni, popolati di gente semplice,  e animati da dialoghi pieni di inquietudine e malinconia, ma anche ricchi di spunti di riflessione.
Da "Feria d'agosto"  a "La casa in collina", da "La bella estate" fino a "La luna e i falò" - in cui nel personaggio di Nuto c'è il suo amico d'infanzia Giuseppe Scaglione detto "Pinolo" -, Cesare Pavese racconta un mondo "immaginario": la serenità, la purezza della campagna da lui amatissima, contrapposta alla confusione della città, la sua Torino, sede della sua vita quotidiana e del suo lavoro di scrittore.
Ma al centro delle sue opere e nei suoi personaggi troviamo anche la descrizione di molte figure femminili, dalle quali emerge un "amore-odio" provato nella realtà verso le donne, anch'esse tra le cause del suo "male di vivere". Prima fra tutte, Tina Pizzardo, il suo primo "amore infelice", ispiratrice di molte liriche contenute in "Lavorare stanca". Poi Fernanda Pivano, sua allieva al Liceo d'Azeglio, che rifiutò di sposarlo ma grazie a lui si appassionò alla letteratura americana, seguendo le sue orme come traduttrice e scrittrice. Bianca Garufi, futura psicanalista e scrittrice, da lui conosciuta quando era segretaria alla sede di Roma della casa editrice Einaudi, e infine l'ultima grande delusione, la più tremenda: l'attrice Constance Dowling - sorella di Doris, protagonista di "Riso amaro" di Giuseppe De Santis. A lei dedicò gran parte delle sue ultime "riflessioni", in quello zibaldone che raccoglieva tutti i suoi pensieri scritti dal 1935 fino al 1950, divenuto poi "Il mestiere di vivere", oltre che la raccolta di poesie "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", tra cui l' omonima lirica. E sempre a lei dedicò il suo ultimo romanzo, "La luna e i falò", pubblicato nell'aprile del 1950 , poco prima di ricevere il Premio Strega per "La bella estate", uscito l'anno precedente.
Pochi mesi dopo, l'insano gesto in quella camera d'albergo di Torino, con accanto a sé "Dialoghi con Leucò", un'opera alla quale era molto affezionato. Una raccolta di brevissimi racconti (pubblicata nel 1947) in cui, attraverso dialoghi tra Dei ed eroi mitici, Pavese si interrogava sul destino, sul dolore, ma soprattutto sull'amore e sulla morte, i due poli attorno a cui ha sempre ruotato la sua vita.
Domande a cui, probabilmente, non riuscì a trovare risposta: verità che il suo sguardo, filtrato dalle lenti dei suoi occhiali e dal fumo della sua pipa, non raggiunse mai.
E forse quel mattino d'agosto, quando si lasciò inghiottire dall'oblio della morte, sperava di trovare altrove quelle risposte.
Però, una possiamo dargliela anche noi. Perché se Cesare Pavese, nella sua tormentata vita, non ha mai "trovato se stesso", non ha mai capito quale fosse "il mestiere di vivere", a settant'anni dalla sua scomparsa, possiamo però dire con certezza quale fosse il suo "mestiere": scrivere.
Quello che lo ha reso immortale, quello per cui siamo ancora qui a ricordarlo e a rimpiangerlo. Il motivo per cui, probabilmente, riusciamo anche a comprendere e perdonare quel suo gesto assurdo, proprio grazie alle meravigliose "parole" che ci ha lasciato.


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