CESARE ZAVATTINI: "SGUARDO" SUL NOVECENTO
Sono passati ormai trent'anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 13 ottobre del 1989, eppure ci riesce ancora difficile abituarci. Cesare Zavattini ha lasciato un vuoto enorme nel panorama della cultura nazionale: un narratore unico nel suo genere, capace di descrivere un "mondo" partendo da angolo nascosti e remoti, in maniera realistica sì ma con profondo "humor".
Ho utilizzato il termine narratore non a caso, perché credo sia questa la definizione che gli si addica di più. Infatti, che si trattasse delle sue opere letterarie, dei suoi soggetti cinematografici o fumettistici, ciò che ha sempre contraddistinto Zavattini è stato il suo modo di raccontare, caratterizzato da uno stile semplice, scorrevole, sagace, attraverso cui sapeva esprimere ciò che sentiva, osservava e voleva comunicare agli altri. Fu proprio questa sua passione per la scrittura e il racconto che lo portò, negli anni '30, a lasciare la sua Emilia e il suo paese, Luzzara - dove era nato il 20 settembre 1902 -, per raggiungere Milano, "patria" dell'editoria. Qui - dopo aver già avuto un'esperienza giornalistica alla "Gazzetta di Parma" - cominciò la sua carriera di narratore, collaborando con diverse riviste ( prima con Rizzoli poi con Mondadori) e arrivando, nel 1936, a fondarne una propria, "Il Bertoldo", della cui redazione faceva parte un suo illustre conterraneo, Giovannino Guareschi (il papà di don Camillo e Peppone).
Allo stesso periodo risalgono le sue prime opere letterarie: "Parliamo tanto di me" - opera d'esordio del 1931-, "I poveri sono matti", "Totò il buono".
Con la sceneggiatura cinematografica, però, Zavattini raggiunse l'acme della sua creatività. Riteneva il cinema un valido strumento per offrire a tutti un punto di vista sul mondo, partendo da piccoli borghi, fatti quotidiani e vicende popolari. Ebbe così inizio la collaborazione con i numerosi registi italiani con i quali realizzò veri e propri capolavori della cinematografia nazionale.
Esordì con Mario Camerini, ma fu con Vittorio De Sica che diede la sua più grande prova artistica, grazie ai capolavori del neorealismo: da "Ladri di biciclette" a "Sciuscià", da "Umberto D." a "La ciociara".
Ma collaborò anche con Giuseppe De Santis, Mario Monicelli, Alberto Lattuada, Michelangelo Antonioni e Pietro Germi. Tra gli anni '50 e '70, Zavattini arrivò a sceneggiare oltre ottanta film, fornendo autentici spaccati dell'Italia del tempo, andando anche oltre il filone neorealista.
Nel 1982, poi, presentò la sua prima e unica opera da regista, "La veritaaaà", da lui stesso interpretato. Fu il suo ultimo lascito alla cultura nazionale.
Quella stessa cultura che, a tre decenni dalla sua scomparsa, sente ancora forte l'assenza della sua mente geniale, piena di idee perdute tra realtà e fantasia, ironia e serietà, in grado di offrire, con poche parole ed immagini, un autentico "sguardo" sull'Italia del Novecento.
Ho utilizzato il termine narratore non a caso, perché credo sia questa la definizione che gli si addica di più. Infatti, che si trattasse delle sue opere letterarie, dei suoi soggetti cinematografici o fumettistici, ciò che ha sempre contraddistinto Zavattini è stato il suo modo di raccontare, caratterizzato da uno stile semplice, scorrevole, sagace, attraverso cui sapeva esprimere ciò che sentiva, osservava e voleva comunicare agli altri. Fu proprio questa sua passione per la scrittura e il racconto che lo portò, negli anni '30, a lasciare la sua Emilia e il suo paese, Luzzara - dove era nato il 20 settembre 1902 -, per raggiungere Milano, "patria" dell'editoria. Qui - dopo aver già avuto un'esperienza giornalistica alla "Gazzetta di Parma" - cominciò la sua carriera di narratore, collaborando con diverse riviste ( prima con Rizzoli poi con Mondadori) e arrivando, nel 1936, a fondarne una propria, "Il Bertoldo", della cui redazione faceva parte un suo illustre conterraneo, Giovannino Guareschi (il papà di don Camillo e Peppone).
Allo stesso periodo risalgono le sue prime opere letterarie: "Parliamo tanto di me" - opera d'esordio del 1931-, "I poveri sono matti", "Totò il buono".
Cesare Zavattini con Vittorio De Sica. |
Con la sceneggiatura cinematografica, però, Zavattini raggiunse l'acme della sua creatività. Riteneva il cinema un valido strumento per offrire a tutti un punto di vista sul mondo, partendo da piccoli borghi, fatti quotidiani e vicende popolari. Ebbe così inizio la collaborazione con i numerosi registi italiani con i quali realizzò veri e propri capolavori della cinematografia nazionale.
In alto, le locandine dei film più celebri sceneggiati da Zavattini e diretti da Vittorio De Sica. |
Esordì con Mario Camerini, ma fu con Vittorio De Sica che diede la sua più grande prova artistica, grazie ai capolavori del neorealismo: da "Ladri di biciclette" a "Sciuscià", da "Umberto D." a "La ciociara".
Ma collaborò anche con Giuseppe De Santis, Mario Monicelli, Alberto Lattuada, Michelangelo Antonioni e Pietro Germi. Tra gli anni '50 e '70, Zavattini arrivò a sceneggiare oltre ottanta film, fornendo autentici spaccati dell'Italia del tempo, andando anche oltre il filone neorealista.
Nel 1982, poi, presentò la sua prima e unica opera da regista, "La veritaaaà", da lui stesso interpretato. Fu il suo ultimo lascito alla cultura nazionale.
Quella stessa cultura che, a tre decenni dalla sua scomparsa, sente ancora forte l'assenza della sua mente geniale, piena di idee perdute tra realtà e fantasia, ironia e serietà, in grado di offrire, con poche parole ed immagini, un autentico "sguardo" sull'Italia del Novecento.
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