PRIMO LEVI, UN UOMO
"La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è una proprietà della sostanza umana." Di questo, ne era convinto: la vita ha uno scopo. Quale fosse il suo, lo capì - purtroppo - ben presto.
Primo Levi ha dedicato un'intera vita a raccontare un passato impossibile da dimenticare.
Quel passato da lui vissuto in prima persona, per quella che alcuni uomini - difficilmente definibili tali - consideravano una colpa: essere ebreo.
Levi nacque esattamente cento anni fa, il 31 luglio del 1919, a Torino. I genitori, Ester Luzzati e Cesare Levi, erano entrambi di origine ebraica.
Frequentò il prestigioso Liceo Massimo D'Azeglio, per poi iscriversi alla Facoltà di Chimica
all'Università di Torino, dove si laureò con lode nel 1941 - tre anni dopo l'applicazione delle leggi razziali.
Di seguito, cominciò a lavorare: prima in una azienda chimica, poi in una fabbrica svizzera di medicinali, che lo portò a trasferirsi a Milano, nel 1942.
Qui, Primo Levi entrò in contatto con gli ambienti antifascisti facenti capo al Partito d'Azione clandestino.
Dopo l'Armistizio, si rifugiò nelle montagne della Val d'Aosta insieme ad alcuni gruppi partigiani. Nel dicembre del 1943, però, venne arrestato dalla milizia fascista e inviato prima al campo di raccolta di Fossoli - vicino Modena - ed infine deportato ad Auschwitz
Primo Levi si è sempre sentito "fortunato". Conosceva un po' di tedesco e, in quanto chimico, venne assunto dalla Buna, una fabbrica annessa al campo di concentramento che realizzava gomma sintetica per la IG Farben (grande azienda chimica tedesca).
In più, grazie a Lorenzo Perrone - un muratore civile conosciuto nel lager - riuscì a procurarsi il cibo necessario per poter sopravvivere.
Fu così che il 27 gennaio del 1945, quando l'Armata Rossa liberò il campo, Levi fu tra i soli venti superstiti che riuscirono a tornare a casa con le proprie gambe.
Il viaggio di ritorno, fu un vero massacro. Tornato a Torino si mise alla ricerca dei suoi familiari e degli amici ancora in vita. Riuscì a trovare lavoro come chimico e, nel frattempo, conobbe anche la donna che diventerà sua moglie, Lucia Morpurgo.
Ma adesso che stava riprendendosi, attraverso quella scrittura che tanto conforto gli aveva dato - fin dalle prima poesie composte - doveva raggiungere il suo "scopo", quello che ciascuno di noi ha.
Da allora, Primo Levi dedicò la propria vita a raccontare ciò che aveva visto coi propri occhi, vissuto sulla propria pelle: una realtà cruda, incredibile a credersi, che molti, troppi, hanno spesso voluto ignorare.
Nel 1947 uscì "Se questo è un uomo", la sua opera più conosciuta, in cui - con una narrazione asciutta, semplice e carica di sentimenti - racconta la sua esperienza da deportato.
Nel 1963 è la volta de "La tregua", in cui narra l'esperienza del ritorno a casa, dopo la liberazione del campo di prigionia - vincitore del Premio Campiello.
Nel 1975, decise anche di lasciare il proprio lavoro di chimico per dedicarsi completamente alla scrittura. Negli anni successivi pubblicherà altre opere di successo come "La chiave a stella", nel 1978 - vincitrice del Premio Strega nel 1979 -, "Se non ora, quando?", nel 1982 - Premio Campiello e Premio Viareggio -, e "I sommersi e i salvati" , nel 1986 - in cui si interroga sul perché solo alcuni, riuscirono a sopravvivere all'inferno di Auschwitz.
Ma oltre a scrivere le sue opere, fino alla morte (avvenuta l'11 aprile del 1987 per un caduta accidentale dalle scale di casa, anche se alcuni ipotizzarono un suicidio), Primo Levi ha raccontato la sua esperienza dal vivo, partecipando a convegni e manifestazioni pubbliche, parlando nelle scuole, riscontrando molto interesse da parte dei giovani sul tema della Shoah.
"Se comprendere è possibile, conoscere è necessario", scrisse in "I sommersi e i salvati" e di sicuro a quella "necessità" ha tenuto fede, portando a termine il proprio "scopo di vita". Perché, gran parte di quel che sappiamo su questa atroce e drammatica pagina di storia recente - che non vogliamo e non possiamo dimenticare - lo dobbiamo proprio a lui, Primo Levi: "un uomo", senza "se".
"La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è una proprietà della sostanza umana." Di questo, ne era convinto: la vita ha uno scopo. Quale fosse il suo, lo capì - purtroppo - ben presto.
Primo Levi ha dedicato un'intera vita a raccontare un passato impossibile da dimenticare.
Quel passato da lui vissuto in prima persona, per quella che alcuni uomini - difficilmente definibili tali - consideravano una colpa: essere ebreo.
Levi nacque esattamente cento anni fa, il 31 luglio del 1919, a Torino. I genitori, Ester Luzzati e Cesare Levi, erano entrambi di origine ebraica.
Frequentò il prestigioso Liceo Massimo D'Azeglio, per poi iscriversi alla Facoltà di Chimica
all'Università di Torino, dove si laureò con lode nel 1941 - tre anni dopo l'applicazione delle leggi razziali.
Di seguito, cominciò a lavorare: prima in una azienda chimica, poi in una fabbrica svizzera di medicinali, che lo portò a trasferirsi a Milano, nel 1942.
Qui, Primo Levi entrò in contatto con gli ambienti antifascisti facenti capo al Partito d'Azione clandestino.
Dopo l'Armistizio, si rifugiò nelle montagne della Val d'Aosta insieme ad alcuni gruppi partigiani. Nel dicembre del 1943, però, venne arrestato dalla milizia fascista e inviato prima al campo di raccolta di Fossoli - vicino Modena - ed infine deportato ad Auschwitz
Primo Levi si è sempre sentito "fortunato". Conosceva un po' di tedesco e, in quanto chimico, venne assunto dalla Buna, una fabbrica annessa al campo di concentramento che realizzava gomma sintetica per la IG Farben (grande azienda chimica tedesca).
In più, grazie a Lorenzo Perrone - un muratore civile conosciuto nel lager - riuscì a procurarsi il cibo necessario per poter sopravvivere.
Fu così che il 27 gennaio del 1945, quando l'Armata Rossa liberò il campo, Levi fu tra i soli venti superstiti che riuscirono a tornare a casa con le proprie gambe.
Il viaggio di ritorno, fu un vero massacro. Tornato a Torino si mise alla ricerca dei suoi familiari e degli amici ancora in vita. Riuscì a trovare lavoro come chimico e, nel frattempo, conobbe anche la donna che diventerà sua moglie, Lucia Morpurgo.
Ma adesso che stava riprendendosi, attraverso quella scrittura che tanto conforto gli aveva dato - fin dalle prima poesie composte - doveva raggiungere il suo "scopo", quello che ciascuno di noi ha.
Da allora, Primo Levi dedicò la propria vita a raccontare ciò che aveva visto coi propri occhi, vissuto sulla propria pelle: una realtà cruda, incredibile a credersi, che molti, troppi, hanno spesso voluto ignorare.
Nel 1947 uscì "Se questo è un uomo", la sua opera più conosciuta, in cui - con una narrazione asciutta, semplice e carica di sentimenti - racconta la sua esperienza da deportato.
Nel 1963 è la volta de "La tregua", in cui narra l'esperienza del ritorno a casa, dopo la liberazione del campo di prigionia - vincitore del Premio Campiello.
Nel 1975, decise anche di lasciare il proprio lavoro di chimico per dedicarsi completamente alla scrittura. Negli anni successivi pubblicherà altre opere di successo come "La chiave a stella", nel 1978 - vincitrice del Premio Strega nel 1979 -, "Se non ora, quando?", nel 1982 - Premio Campiello e Premio Viareggio -, e "I sommersi e i salvati" , nel 1986 - in cui si interroga sul perché solo alcuni, riuscirono a sopravvivere all'inferno di Auschwitz.
Ma oltre a scrivere le sue opere, fino alla morte (avvenuta l'11 aprile del 1987 per un caduta accidentale dalle scale di casa, anche se alcuni ipotizzarono un suicidio), Primo Levi ha raccontato la sua esperienza dal vivo, partecipando a convegni e manifestazioni pubbliche, parlando nelle scuole, riscontrando molto interesse da parte dei giovani sul tema della Shoah.
"Se comprendere è possibile, conoscere è necessario", scrisse in "I sommersi e i salvati" e di sicuro a quella "necessità" ha tenuto fede, portando a termine il proprio "scopo di vita". Perché, gran parte di quel che sappiamo su questa atroce e drammatica pagina di storia recente - che non vogliamo e non possiamo dimenticare - lo dobbiamo proprio a lui, Primo Levi: "un uomo", senza "se".
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