GIORGIO AMBROSOLI: L'EROE BORGHESE
"Non posso insegnare ai miei figli a non fare, per paura, ciò che reputano giusto". Chissà, forse quella sera dell'11 luglio del 1979, Giorgio Ambrosoli stava pensando proprio a questo, ciò che aveva risposto ad un suo conoscente tempo prima. Nonostante la paura, nonostante le minacce e le difficoltà incontrate, Ambrosoli - un uomo onesto, marito e padre di tre figli - aveva portato a termine ciò che reputava giusto: indagare sul fallimento della Banca Privata Italiana e svelare i loschi traffici del suo principale azionista, il finanziere Michele Sindona.
Era tutto cominciato cinque anni prima, quando lui, avvocato esperto in diritto fallimentare, venne nominato dall'allora governatore della Banca d'Italia, Guido Carli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana facente capo a Sindona, banchiere di fama mondiale.
Ambrosoli accettò, mettendosi subito all'opera. In parallelo agli accertamenti di Ambrosoli, erano in corso anche le indagini della magistratura, guidate da un gruppo di uomini della guardia di finanza, capitanato dal maresciallo Silvio Novembre.
Dopo un iniziale momento di diffidenza, Ambrosoli e Novembre capirono di essere fatti per intendersi. Cominciarono a collaborare, svelando non solo le irregolarità fiscali presenti nei rendiconto della Banca ma, soprattutto, mettendo in luce una fitta rete di affari (illeciti) finanziati da Sindona. Affari che legavano il banchiere a politici influenti, alti prelati (lo IOR, la Banca Vaticana), massoneria (la P2 di Licio Gelli) e Mafia.
Malgrado i tentativi di corruzione di cui fu vittima, le intimidazioni e le manovre attuate da Sindona pur di salvare la sua Banca (il piano di salvataggio presentato al Presidente del Consiglio Andreotti, che prevedeva di coprire gli ammanchi con i soldi dei contribuenti), Ambrosoli proseguì dritto per la sua strada, senza mai voltarsi indietro.
Nel frattempo, negli Stati Uniti - dove Sindona si era rifugiato per scampare all'arresto - la magistratura americana aveva avviato delle indagini su Sindona, in merito al fallimento di un'altra banca di sua proprietà, la Franklin National Bank - su cui anche l'avvocato stava indagando.
Ambrosoli fu chiamato a testimoniare. Così - prima negli Stati Uniti, poi in Italia -, l'avvocato portò la sua testimonianza, rafforzata da una sostanziosa documentazione che accertava la colpevolezza del Sindona e ne svelava i traffici. Quella sera di luglio, senza dubbio, Giorgio Ambrosoli era certo di avercela fatta, di essere riuscito nel suo lavoro. Ma non ebbe il tempo di assistere alla sua vittoria.
Proprio quell'11 luglio del 1979, infatti, mentre stava rincasando, Ambrosoli venne fermato sotto casa da William Aricò, killer statunitense assoldato da Sindona, che gli sparò addosso quattro colpi 357 Magnum.
Venne portato di corsa al Policlinico, ma non ci fu nulla da fare, morì in autoambulanza.
La sua tenacia, il suo coraggio e quella lunga battaglia, però, non furono vane. Cinque anni dopo, nel 1986, Michele Sindona venne estradato in Italia dagli Stati Uniti, e condannato in primo grado all'ergastolo per il suo omicidio. Tuttavia, due giorni dopo la sentenza, morì per avvelenamento nel carcere di Voghera.
Giorgio Ambrosoli, invece, a distanza di quarant'anni dal suo assassinio, continua a vivere tra noi.
Soprattutto, continua a vivere l'esempio d'onestà, rettitudine e dedizione di un "eroe borghese" - come lo definì Corrado Stajano - che non smise mai di credere nel proprio dovere.
"Non posso insegnare ai miei figli a non fare, per paura, ciò che reputano giusto". Chissà, forse quella sera dell'11 luglio del 1979, Giorgio Ambrosoli stava pensando proprio a questo, ciò che aveva risposto ad un suo conoscente tempo prima. Nonostante la paura, nonostante le minacce e le difficoltà incontrate, Ambrosoli - un uomo onesto, marito e padre di tre figli - aveva portato a termine ciò che reputava giusto: indagare sul fallimento della Banca Privata Italiana e svelare i loschi traffici del suo principale azionista, il finanziere Michele Sindona.
Era tutto cominciato cinque anni prima, quando lui, avvocato esperto in diritto fallimentare, venne nominato dall'allora governatore della Banca d'Italia, Guido Carli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana facente capo a Sindona, banchiere di fama mondiale.
Ambrosoli accettò, mettendosi subito all'opera. In parallelo agli accertamenti di Ambrosoli, erano in corso anche le indagini della magistratura, guidate da un gruppo di uomini della guardia di finanza, capitanato dal maresciallo Silvio Novembre.
Dopo un iniziale momento di diffidenza, Ambrosoli e Novembre capirono di essere fatti per intendersi. Cominciarono a collaborare, svelando non solo le irregolarità fiscali presenti nei rendiconto della Banca ma, soprattutto, mettendo in luce una fitta rete di affari (illeciti) finanziati da Sindona. Affari che legavano il banchiere a politici influenti, alti prelati (lo IOR, la Banca Vaticana), massoneria (la P2 di Licio Gelli) e Mafia.
Malgrado i tentativi di corruzione di cui fu vittima, le intimidazioni e le manovre attuate da Sindona pur di salvare la sua Banca (il piano di salvataggio presentato al Presidente del Consiglio Andreotti, che prevedeva di coprire gli ammanchi con i soldi dei contribuenti), Ambrosoli proseguì dritto per la sua strada, senza mai voltarsi indietro.
Nel frattempo, negli Stati Uniti - dove Sindona si era rifugiato per scampare all'arresto - la magistratura americana aveva avviato delle indagini su Sindona, in merito al fallimento di un'altra banca di sua proprietà, la Franklin National Bank - su cui anche l'avvocato stava indagando.
Ambrosoli fu chiamato a testimoniare. Così - prima negli Stati Uniti, poi in Italia -, l'avvocato portò la sua testimonianza, rafforzata da una sostanziosa documentazione che accertava la colpevolezza del Sindona e ne svelava i traffici. Quella sera di luglio, senza dubbio, Giorgio Ambrosoli era certo di avercela fatta, di essere riuscito nel suo lavoro. Ma non ebbe il tempo di assistere alla sua vittoria.
Proprio quell'11 luglio del 1979, infatti, mentre stava rincasando, Ambrosoli venne fermato sotto casa da William Aricò, killer statunitense assoldato da Sindona, che gli sparò addosso quattro colpi 357 Magnum.
Venne portato di corsa al Policlinico, ma non ci fu nulla da fare, morì in autoambulanza.
La sua tenacia, il suo coraggio e quella lunga battaglia, però, non furono vane. Cinque anni dopo, nel 1986, Michele Sindona venne estradato in Italia dagli Stati Uniti, e condannato in primo grado all'ergastolo per il suo omicidio. Tuttavia, due giorni dopo la sentenza, morì per avvelenamento nel carcere di Voghera.
Giorgio Ambrosoli, invece, a distanza di quarant'anni dal suo assassinio, continua a vivere tra noi.
Soprattutto, continua a vivere l'esempio d'onestà, rettitudine e dedizione di un "eroe borghese" - come lo definì Corrado Stajano - che non smise mai di credere nel proprio dovere.
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