INDRO MONTANELLI: GIORNALISTA FINO "ALL'ULTIMA RIGA"
E' stata una delle grandi firme del giornalismo italiano del ventesimo secolo. Con la sua fedele "lettera 22" e quello stile semplice, conciso - appreso durante l'apprendistato all' United Press di New York - Indro Montanelli ha saputo descrivere e raccontare come pochi l'Italia del secolo scorso.
Nato il 22 aprile di centodieci anni fa a Fucecchio, un paese posto sulla riva destra dell'Arno, Montanelli si avviò al giornalismo dopo una laurea in giurisprudenza conseguita all'Università di Firenze.
La sua prima collaborazione risale agli anni '30, con "Il Frontespizio" di Piero Bargellini e poi col quotidiano fiorentino "L'Universale". Alla chiusura di quest'ultimo il trasferimento a Parigi, dove cominciò una produttiva collaborazione con "Paris-Soir", che gli permise di realizzare la sua prima grande intervista della sua carriera: quella ad Henry Ford, il fondatore della casa automobilistica di Detroit e della "catena di montaggio".
La sua prima vera assunzione, però, è quella come apprendista presso l'United Press di New York, che fu per lui una vera palestra, dal punto di vista tecnico-giornalistico.
Dopo l'invasione dell'Etiopia da parte dell'Italia fascista, nel 1935, decise di partire come inviato volontario, dando le dimissioni all'United Press.
Stette fuori un anno, dovendo abbandonare i combattimenti a causa di un ferimento.
L'approdo al suo "storico" quotidiano, "Il Corriere della Sera" è del 1938. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale e l'adesione dell'Italia, Montanelli cominciò a girare l'Europa portando notizie dal fronte.
Indro Montanelli e la sua inseparabile macchina per scrivere "Olivetti lettera 22".
Quasi al termine della guerra, però, la dura esperienza della prigionia. Accusato di aver scritto contro il regime, venne arrestato e rinchiuso pima in una prigione nazista a Gallarate e poi nel carcere di San Vittore: fu qui che conobbe l'italoamericano Mike Bongiorno - futuro presentatore della televisione italiana - ed il generale Della Rovere, nome che nascondeva l'identità di Giovanni Bertone, una spia dei nazisti che, rifiutatasi all'ultimo di collaborare, venne fucilato. Fu proprio a lui che Montanelli si ispirò per la stesura del romanzo semiautobiografico intitolato appunto "Il generale Della Rovere" e da cui sarà poi tratto il film con Vittorio De Sica.
Al termine della guerra, ritornò a collaborare attivamente al "Corriere". Fu questo l'inizio della sua carriera che lo portò ad essere uno dei principali narratori della politica e della società italiana del '900. Si parte dalle sue rubriche rivolte ai lettori, ed inizialmente apparse su "La Domenica del Corriere", settimanale popolare del quotidiano di via solferino, fino alle sue aperte critiche: come quella alla approvazione della famosa "Legge Merlin", nel 1956, - legge a favore della chiusura delle case di tolleranza - contro cui scrisse il pamphlet "Addio Wanda!" - ispirandosi al nome di una nota prostituta milanese, forse conosciuta di persona. Oppure, nel 1962, la dichiarata avversione nei confronti della politica finanziaria e petrolifera dell'allora presidente dell'Eni, Enrico Mattei, morto lo stesso anno in un misterioso incidente aereo.
Ma Montanelli fu anche un grande storico, a partire dagli anni '50. Cominciò con la Storia dei Greci e dei Romani fino ad arrivare al Novecento, in volumi pubblicati e ripubblicati più volte nel corso degli anni.
Negli anni '70, però, dopo un cambio di gestione da parte del "Corriere della Sera", che comportò una decisa svolta a sinistra da parte del quotidiano, Montanelli, insieme ad altri suoi colleghi, abbandonò la storica testata milanese per fondare un proprio quotidiano, "Il Giornale", nato nel 1975 e finanziato dalla Montedison.
Dalle colonne della nuova testata Montanelli fece importanti appelli, come la raccolta fondi per i terremotati del Friuli nel 1976, oppure l'invito a votare per la Democrazia cristiana - quando si paventò il pericolo di un ascesa del Pci allora guidato da Enrico Berlinguer - facendo suo un motto lanciato da Salvemini nel '48: "Turiamoci il naso e votiamo Dc!".
Con "Il Giornale" Montanelli descrisse in maniera precisa e lucida gli "anni di piombo", fatti di sparatorie, attentati, paure, mostrando la sua aperta avversione alla follia delle Brigate Rosse ( che attentarono anche alla sua vita, "gambizzandolo" a Milano a pochi passi da casa sua, nel 1977 ) che non gli impedì, però, di mostrarsi contrario ad ogni trattativa al momento del sequestro del presidente della Dc Aldo Moro, nel 1978.
Un anno prima, però, ci fu un cambiamento ne "Il Giornale". Terminarono i finanziamenti da parte della Montedison e parte della gestione del quotidiano (successivamente tutta) passò nelle mani dell'allora imprenditore edile Silvio Berlusconi.
La collaborazione tra Berlusconi e Montanelli durò circa vent'anni. Il giornalista mise subito in chiaro che il "proprietario" del quotidiano era Berlusconi, ma era lui a restare il "padrone".
La collaborazione cessò nel 1994, nel momento in cui Berlusconi si candidò alle elezioni politiche che lo portarono alla sua prima vittoria - candidatura che Montanelli non appoggiò. Il giornalista abbandonò così la direzione del giornale e con alcuni suoi ex collaboratori fondò un nuovo quotidiano - inizialmente pensato come un settimanale - "La Voce". La nuova testata, però, non ebbe il successo sperato e venne chiusa dopo soli due anni.
Negli ultimi anni il giornalista fiorentino tornò a collaborare con "Il Corriere", tenendo una seguitissima rubrica di comunicazioni con i lettori "La stanza di Montanelli".
Furono le sue "ultime righe". Il 22 luglio del 2001, infatti, a seguito delle complicazioni post-operatorie di un tumore all'intestino, Indro Montanelli se ne andò via, all'età di 92 anni. Non prima, però, di aver adeguatamente salutato il suo pubblico di lettori, con un necrologio da lui stesso redatto, pochi giorni prima di morire, ed uscito sul "Corriere" il giorno dopo la sua morte. Probabilmente voleva tener fede al suo "credo". "Io mi considero un condannato al giornalismo, perché non avrei saputo fare niente altro" - disse, infatti, al collega Enzo Biagi in una delle sue ultime interviste.
E senza dubbio non possiamo negare che abbia onorato la sua "condanna": fino all'ultimo giorno, fino "all'ultima riga".
E' stata una delle grandi firme del giornalismo italiano del ventesimo secolo. Con la sua fedele "lettera 22" e quello stile semplice, conciso - appreso durante l'apprendistato all' United Press di New York - Indro Montanelli ha saputo descrivere e raccontare come pochi l'Italia del secolo scorso.
Nato il 22 aprile di centodieci anni fa a Fucecchio, un paese posto sulla riva destra dell'Arno, Montanelli si avviò al giornalismo dopo una laurea in giurisprudenza conseguita all'Università di Firenze.
La sua prima collaborazione risale agli anni '30, con "Il Frontespizio" di Piero Bargellini e poi col quotidiano fiorentino "L'Universale". Alla chiusura di quest'ultimo il trasferimento a Parigi, dove cominciò una produttiva collaborazione con "Paris-Soir", che gli permise di realizzare la sua prima grande intervista della sua carriera: quella ad Henry Ford, il fondatore della casa automobilistica di Detroit e della "catena di montaggio".
La sua prima vera assunzione, però, è quella come apprendista presso l'United Press di New York, che fu per lui una vera palestra, dal punto di vista tecnico-giornalistico.
Dopo l'invasione dell'Etiopia da parte dell'Italia fascista, nel 1935, decise di partire come inviato volontario, dando le dimissioni all'United Press.
Stette fuori un anno, dovendo abbandonare i combattimenti a causa di un ferimento.
L'approdo al suo "storico" quotidiano, "Il Corriere della Sera" è del 1938. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale e l'adesione dell'Italia, Montanelli cominciò a girare l'Europa portando notizie dal fronte.
Indro Montanelli e la sua inseparabile macchina per scrivere "Olivetti lettera 22".
Quasi al termine della guerra, però, la dura esperienza della prigionia. Accusato di aver scritto contro il regime, venne arrestato e rinchiuso pima in una prigione nazista a Gallarate e poi nel carcere di San Vittore: fu qui che conobbe l'italoamericano Mike Bongiorno - futuro presentatore della televisione italiana - ed il generale Della Rovere, nome che nascondeva l'identità di Giovanni Bertone, una spia dei nazisti che, rifiutatasi all'ultimo di collaborare, venne fucilato. Fu proprio a lui che Montanelli si ispirò per la stesura del romanzo semiautobiografico intitolato appunto "Il generale Della Rovere" e da cui sarà poi tratto il film con Vittorio De Sica.
Al termine della guerra, ritornò a collaborare attivamente al "Corriere". Fu questo l'inizio della sua carriera che lo portò ad essere uno dei principali narratori della politica e della società italiana del '900. Si parte dalle sue rubriche rivolte ai lettori, ed inizialmente apparse su "La Domenica del Corriere", settimanale popolare del quotidiano di via solferino, fino alle sue aperte critiche: come quella alla approvazione della famosa "Legge Merlin", nel 1956, - legge a favore della chiusura delle case di tolleranza - contro cui scrisse il pamphlet "Addio Wanda!" - ispirandosi al nome di una nota prostituta milanese, forse conosciuta di persona. Oppure, nel 1962, la dichiarata avversione nei confronti della politica finanziaria e petrolifera dell'allora presidente dell'Eni, Enrico Mattei, morto lo stesso anno in un misterioso incidente aereo.
Ma Montanelli fu anche un grande storico, a partire dagli anni '50. Cominciò con la Storia dei Greci e dei Romani fino ad arrivare al Novecento, in volumi pubblicati e ripubblicati più volte nel corso degli anni.
Negli anni '70, però, dopo un cambio di gestione da parte del "Corriere della Sera", che comportò una decisa svolta a sinistra da parte del quotidiano, Montanelli, insieme ad altri suoi colleghi, abbandonò la storica testata milanese per fondare un proprio quotidiano, "Il Giornale", nato nel 1975 e finanziato dalla Montedison.
Dalle colonne della nuova testata Montanelli fece importanti appelli, come la raccolta fondi per i terremotati del Friuli nel 1976, oppure l'invito a votare per la Democrazia cristiana - quando si paventò il pericolo di un ascesa del Pci allora guidato da Enrico Berlinguer - facendo suo un motto lanciato da Salvemini nel '48: "Turiamoci il naso e votiamo Dc!".
Con "Il Giornale" Montanelli descrisse in maniera precisa e lucida gli "anni di piombo", fatti di sparatorie, attentati, paure, mostrando la sua aperta avversione alla follia delle Brigate Rosse ( che attentarono anche alla sua vita, "gambizzandolo" a Milano a pochi passi da casa sua, nel 1977 ) che non gli impedì, però, di mostrarsi contrario ad ogni trattativa al momento del sequestro del presidente della Dc Aldo Moro, nel 1978.
Un anno prima, però, ci fu un cambiamento ne "Il Giornale". Terminarono i finanziamenti da parte della Montedison e parte della gestione del quotidiano (successivamente tutta) passò nelle mani dell'allora imprenditore edile Silvio Berlusconi.
La collaborazione tra Berlusconi e Montanelli durò circa vent'anni. Il giornalista mise subito in chiaro che il "proprietario" del quotidiano era Berlusconi, ma era lui a restare il "padrone".
La collaborazione cessò nel 1994, nel momento in cui Berlusconi si candidò alle elezioni politiche che lo portarono alla sua prima vittoria - candidatura che Montanelli non appoggiò. Il giornalista abbandonò così la direzione del giornale e con alcuni suoi ex collaboratori fondò un nuovo quotidiano - inizialmente pensato come un settimanale - "La Voce". La nuova testata, però, non ebbe il successo sperato e venne chiusa dopo soli due anni.
Negli ultimi anni il giornalista fiorentino tornò a collaborare con "Il Corriere", tenendo una seguitissima rubrica di comunicazioni con i lettori "La stanza di Montanelli".
Furono le sue "ultime righe". Il 22 luglio del 2001, infatti, a seguito delle complicazioni post-operatorie di un tumore all'intestino, Indro Montanelli se ne andò via, all'età di 92 anni. Non prima, però, di aver adeguatamente salutato il suo pubblico di lettori, con un necrologio da lui stesso redatto, pochi giorni prima di morire, ed uscito sul "Corriere" il giorno dopo la sua morte. Probabilmente voleva tener fede al suo "credo". "Io mi considero un condannato al giornalismo, perché non avrei saputo fare niente altro" - disse, infatti, al collega Enzo Biagi in una delle sue ultime interviste.
E senza dubbio non possiamo negare che abbia onorato la sua "condanna": fino all'ultimo giorno, fino "all'ultima riga".
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