LA FOLLIA È DIVERSITA', OPPURE AVER PAURA DELLA DIVERSITA'
"Si va in manicomio per imparare a morire"- scrisse Alda Merini. E chi meglio di lei poteva descrivere, con semplici parole, l'orrore dei manicomi. Lei che passò parte della sua vita in quelle strutture, dopo che a sedici anni le fu diagnosticato un disturbo bipolare (alternava, in pratica, momenti di euforia a momenti di depressione). Nei manicomi - sebbene fossero ospedali psichiatrici, quindi luoghi preposti alla cura e all'assistenza - si entrava già con l'idea di non uscirci più, almeno non vivi. Erano casermoni, con ampi cortili, corridoi stretti e lunghi, stanze con cancello ed inferriate. Più simili ad un carcere che ad un ospedale. Le persone venivano portate lì perché malate mentali. Persone con disturbi, più o meno gravi, che venivano rinchiuse perché la società non le accettava, non le voleva. Ma poi cambiò tutto.
Il 13 maggio del 1978, venne approvata la legge numero 180 che stabiliva la chiusura definitiva dei manicomi e una complessa rivisitazione delle norme in termini di servizi ed assistenza sanitari. La legge è nota come "Legge Basaglia", dal promotore della riforma psichiatrica italiana, Franco Basaglia, che aveva toccato con mano il dramma dei pazienti di questi "ospedali degli orrori". Lunghi camicioni bianchi, letti di contenimento a cui venivano legati dopo aver subito "la prassi" dell'elettroshock. Camere affollate e poco arieggiate. La cosa che più lo aveva colpito non erano le sofferenze fisiche in sé, ma la completa perdita di diritti da parte dei pazienti. All'interno di quelle stanze (o celle?), dietro quelle sbarre, non esistevano più uomini e donne, maschi e femmine, ricchi e poveri. Ognuno perdeva la propria identità e si confondeva con l'altro. Si diventava cose, non si era più persone. Ci si annullava lentamente, spegnendosi pian piano, come moccoli di candele consumate. Basaglia fece capire a tutti come il dovere di un medico, di uno psichiatria - ed, in senso ampio, di una società moderna qual era l'Italia - fosse quello di aiutare queste persone. Toglierle dalla società, privarle temporaneamente della propria libertà per permettere loro di ritornare nel mondo liberi come prima e degni di vivere come cittadini ed in primis come uomini. Invece no: fino ad allora chi entrava in manicomio sapeva già di essere uscito dal mondo e che non vi avrebbe fatto più ritorno. Ma per tutti i pazzi erano questi: gente malata, relitti sociali da evitare e tenere a distanza, perché folli. Come se la follia fosse una giustificazione a tutto. Si trattava soltanto di persone in difficoltà, magari deboli, che avevano bisogno soltanto di comprensione ed aiuto. Ma, come disse lo stesso Basaglia, " La follia è diversità, oppure aver paura della diversità". E a quarant'anni di distanza questa paura è ancora presente e viva.
"Si va in manicomio per imparare a morire"- scrisse Alda Merini. E chi meglio di lei poteva descrivere, con semplici parole, l'orrore dei manicomi. Lei che passò parte della sua vita in quelle strutture, dopo che a sedici anni le fu diagnosticato un disturbo bipolare (alternava, in pratica, momenti di euforia a momenti di depressione). Nei manicomi - sebbene fossero ospedali psichiatrici, quindi luoghi preposti alla cura e all'assistenza - si entrava già con l'idea di non uscirci più, almeno non vivi. Erano casermoni, con ampi cortili, corridoi stretti e lunghi, stanze con cancello ed inferriate. Più simili ad un carcere che ad un ospedale. Le persone venivano portate lì perché malate mentali. Persone con disturbi, più o meno gravi, che venivano rinchiuse perché la società non le accettava, non le voleva. Ma poi cambiò tutto.
Il 13 maggio del 1978, venne approvata la legge numero 180 che stabiliva la chiusura definitiva dei manicomi e una complessa rivisitazione delle norme in termini di servizi ed assistenza sanitari. La legge è nota come "Legge Basaglia", dal promotore della riforma psichiatrica italiana, Franco Basaglia, che aveva toccato con mano il dramma dei pazienti di questi "ospedali degli orrori". Lunghi camicioni bianchi, letti di contenimento a cui venivano legati dopo aver subito "la prassi" dell'elettroshock. Camere affollate e poco arieggiate. La cosa che più lo aveva colpito non erano le sofferenze fisiche in sé, ma la completa perdita di diritti da parte dei pazienti. All'interno di quelle stanze (o celle?), dietro quelle sbarre, non esistevano più uomini e donne, maschi e femmine, ricchi e poveri. Ognuno perdeva la propria identità e si confondeva con l'altro. Si diventava cose, non si era più persone. Ci si annullava lentamente, spegnendosi pian piano, come moccoli di candele consumate. Basaglia fece capire a tutti come il dovere di un medico, di uno psichiatria - ed, in senso ampio, di una società moderna qual era l'Italia - fosse quello di aiutare queste persone. Toglierle dalla società, privarle temporaneamente della propria libertà per permettere loro di ritornare nel mondo liberi come prima e degni di vivere come cittadini ed in primis come uomini. Invece no: fino ad allora chi entrava in manicomio sapeva già di essere uscito dal mondo e che non vi avrebbe fatto più ritorno. Ma per tutti i pazzi erano questi: gente malata, relitti sociali da evitare e tenere a distanza, perché folli. Come se la follia fosse una giustificazione a tutto. Si trattava soltanto di persone in difficoltà, magari deboli, che avevano bisogno soltanto di comprensione ed aiuto. Ma, come disse lo stesso Basaglia, " La follia è diversità, oppure aver paura della diversità". E a quarant'anni di distanza questa paura è ancora presente e viva.
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