SEMPRE PER AMORE, MAI PER FORZA
"È meglio un buon agricoltore per amore che un cattivo laureato per forza". Queste parole le pronuncia - in uno dei tanti romanzi - don Camillo, il burbero prete emiliano portato al successo cinematografico da Fernandel - e nato dalla penna dello scrittore Giovannino Guareschi.
Il curato si rivolge ad una sua parrocchiana che aveva mandato in collegio il proprio figlio e - avendo avuto lamentele da parte del direttore riguardo la sua condotta - aveva chiesto al prete di parlarci, per convincerlo a studiare.
Don Camillo lo fa, trascorrendo una giornata con lui e capendo, così, ciò che la madre non aveva intuito: il ragazzino, semplicemente, non si sentiva soddisfatto. Voleva vivere all'aria aperta, correre nei campi, occuparsi degli animali. Fare, in sostanza, il lavoro di tutti i suoi familiari: il contadino. Stare in un collegio, chiuso in una stanza a studiare, era per un lui una sofferenza enorme.
Così, il parroco decise di aiutare il ragazzino convincendo la madre a riprenderlo a casa con sé e permettendogli di fare quello che desiderava.
Tengo a precisare che il romanzo è stato scritto sessant'anni fa, quando ancora non esisteva l'obbligo scolastico. Oggi sarebbe impensabile - oltre che fuori legge - concedere ad un ragazzino di non andare a scuola.
Credo, però, che questo racconto sia un buono spunto per discutere di - a mio parere - un grosso problema: la capacità di fare del male pensando, invece, di fare il bene di una persona. Mi spiego con lo stesso esempio. La madre, nel romanzo guareschiano, mandava il figlio a scuola credendo di fare il suo bene. Chi è genitore può capirlo benissimo: una madre vorrebbe sempre il meglio per il proprio figlio. Questa povera donna era una contadina abituata al sudore, alla fatica dei campi. Una donna che, per una vita intera, aveva provato sulla propria pelle quanto potesse essere maligna la terra: va lavorata incessantemente, con continuità, altrimenti la natura si "riprende" tutto il lavoro fatto. Un mestiere duro che avrebbe voluto risparmiare al proprio pargolo. Desiderava, invece, che il proprio figlio studiasse, che prendesse un diploma o magari una laurea. Gli augurava un futuro migliore del proprio.
Qualunque genitore, al suo posto, avrebbe fatto altrettanto. Ma, come diceva qualcuno, "tutto è relativo". Infatti, il figlio la pensava diversamente. La madre credeva fosse giusto - ed è comprensibilissimo- che lui studiasse, che migliorasse la propria condizione.
Il figlio, invece, era contento così: era nato e cresciuto in mezzo ai campi, all'aria aperta, e lì voleva restare. Fare il lavoro dei genitori. Quella era la sua passione.
In definitiva, la madre pensava di fare il suo bene ed invece si sbagliava, perché non aveva capito cosa era importante per lui.
A quale genitore non è mai capitato? Credo a tutti. Tutte le madri e tutti i padri hanno delle aspettative sui propri figli. È una cosa leggittima, naturale e comprensibile. Però, non bisogna mai sottovalutare una cosa: non siamo tutti uguali. Anche tra genitori e figli possono esserci delle differenze, a volte abissali. Per questo non bisognerebbe mai forzare la mano. Io ritengo sia giusto che ognuno faccia le proprie scelte in autonomia. I genitori hanno il dovere di aiutarci, sostenerci. Ben vengano i consigli, i suggerimenti, ma che siano "costruttivi" e non "impositivi". La colpa, però, è anche di noi figli.
Noi ragazzi - ed a me è capitato - spesso abbiamo paura. Viviamo in una società che, ogni giorno, come un mantra, sembra ripeterci che non c'è più spazio per pensare alle proprie aspirazioni, ai sogni e ai desideri. I genitori - giustamente - sono più realisti, obiettivi. Sapendo come va il mondo, cercano di indicarci la via più giusta, o almeno più sicura. E noi, specialmente se indecisi, ci fidiamo.
Così finiamo per assecondare chi - senz'altro - ha più esperienza di noi, ma ovviamente non è "noi", quindi non sa , probabilmente, cosa davvero ci piacerebbe fare.
Capita anche che, presa una determinata strada (magari consigliataci), ci rendiamo conto - come il bimbo del romanzo - che non sia la strada giusta. Però, per paura, magari per vergogna, non diciamo nulla. Così, finiamo per soffrire in silenzio. Preferiamo tenerci tutto dentro, non parlare pur di non dare un dispiacere ai nostri genitori. Perché - sebbene molti la pensino diversamente - un figlio (o una figlia) non vorrebbe mai deludere il proprio padre (o la madre). Anzi, di solito, vorrebbe che il proprio padre fosse orgoglioso di lui, soddisfatto delle sue scelte, dei traguardi che ha raggiunto.
Ma non bisogna dimenticare che, allo stesso tempo, anche i genitori vogliono, in fondo, soltanto la felicità dei figli. E per questo "bene", a volte - come noi - sbagliano anche loro.
Sbagliare è lecito e può benissimo avvenire da entrambi le parti. Sbagliano i figli, sbagliano i padri. Ma c'è sempre una soluzione. Basta parlarsi, dirsi chiaramente come stanno le cose e cercare di rimediare.
Quel che conta davvero è fare ciò che ci rende felici e appagati. Cosa potrebbe voler di più un genitore per il proprio figlio? L'importante è capire ciò che si vuole veramente. C'è chi lo capisce prima, chi dopo, ma tutti - prima o poi - troviamo la nostra strada. E non bisogna mai pensare che se si sbaglia si è "sbagliati". Assolutamente no: sbagliare significa aver provato. Significa aver messo in discussione se stessi per cercare il proprio posto nel mondo. Fa parte dei rischi e spesso è inevitabile. Tiziano Terzani (giornalista e scrittore) disse: "Finirai per trovarla la via, se prima avrai il coraggio di perderti". È proprio così: ci vuole coraggio anche per sbagliare. E soltanto sbagliando, e rendendosene conto, si può capire davvero cosa sia importante per noi.
È capitato ai nostri genitori un tempo, capita a noi ora, e capiterà ai nostri figli.
Non è questo il problema. L'importante è stare bene con se stessi e seguire il proprio cuore.
Come ci insegna don Camillo: sempre per amore, mai per forza!
"È meglio un buon agricoltore per amore che un cattivo laureato per forza". Queste parole le pronuncia - in uno dei tanti romanzi - don Camillo, il burbero prete emiliano portato al successo cinematografico da Fernandel - e nato dalla penna dello scrittore Giovannino Guareschi.
Il curato si rivolge ad una sua parrocchiana che aveva mandato in collegio il proprio figlio e - avendo avuto lamentele da parte del direttore riguardo la sua condotta - aveva chiesto al prete di parlarci, per convincerlo a studiare.
Don Camillo lo fa, trascorrendo una giornata con lui e capendo, così, ciò che la madre non aveva intuito: il ragazzino, semplicemente, non si sentiva soddisfatto. Voleva vivere all'aria aperta, correre nei campi, occuparsi degli animali. Fare, in sostanza, il lavoro di tutti i suoi familiari: il contadino. Stare in un collegio, chiuso in una stanza a studiare, era per un lui una sofferenza enorme.
Così, il parroco decise di aiutare il ragazzino convincendo la madre a riprenderlo a casa con sé e permettendogli di fare quello che desiderava.
Tengo a precisare che il romanzo è stato scritto sessant'anni fa, quando ancora non esisteva l'obbligo scolastico. Oggi sarebbe impensabile - oltre che fuori legge - concedere ad un ragazzino di non andare a scuola.
Credo, però, che questo racconto sia un buono spunto per discutere di - a mio parere - un grosso problema: la capacità di fare del male pensando, invece, di fare il bene di una persona. Mi spiego con lo stesso esempio. La madre, nel romanzo guareschiano, mandava il figlio a scuola credendo di fare il suo bene. Chi è genitore può capirlo benissimo: una madre vorrebbe sempre il meglio per il proprio figlio. Questa povera donna era una contadina abituata al sudore, alla fatica dei campi. Una donna che, per una vita intera, aveva provato sulla propria pelle quanto potesse essere maligna la terra: va lavorata incessantemente, con continuità, altrimenti la natura si "riprende" tutto il lavoro fatto. Un mestiere duro che avrebbe voluto risparmiare al proprio pargolo. Desiderava, invece, che il proprio figlio studiasse, che prendesse un diploma o magari una laurea. Gli augurava un futuro migliore del proprio.
Qualunque genitore, al suo posto, avrebbe fatto altrettanto. Ma, come diceva qualcuno, "tutto è relativo". Infatti, il figlio la pensava diversamente. La madre credeva fosse giusto - ed è comprensibilissimo- che lui studiasse, che migliorasse la propria condizione.
Il figlio, invece, era contento così: era nato e cresciuto in mezzo ai campi, all'aria aperta, e lì voleva restare. Fare il lavoro dei genitori. Quella era la sua passione.
In definitiva, la madre pensava di fare il suo bene ed invece si sbagliava, perché non aveva capito cosa era importante per lui.
A quale genitore non è mai capitato? Credo a tutti. Tutte le madri e tutti i padri hanno delle aspettative sui propri figli. È una cosa leggittima, naturale e comprensibile. Però, non bisogna mai sottovalutare una cosa: non siamo tutti uguali. Anche tra genitori e figli possono esserci delle differenze, a volte abissali. Per questo non bisognerebbe mai forzare la mano. Io ritengo sia giusto che ognuno faccia le proprie scelte in autonomia. I genitori hanno il dovere di aiutarci, sostenerci. Ben vengano i consigli, i suggerimenti, ma che siano "costruttivi" e non "impositivi". La colpa, però, è anche di noi figli.
Noi ragazzi - ed a me è capitato - spesso abbiamo paura. Viviamo in una società che, ogni giorno, come un mantra, sembra ripeterci che non c'è più spazio per pensare alle proprie aspirazioni, ai sogni e ai desideri. I genitori - giustamente - sono più realisti, obiettivi. Sapendo come va il mondo, cercano di indicarci la via più giusta, o almeno più sicura. E noi, specialmente se indecisi, ci fidiamo.
Così finiamo per assecondare chi - senz'altro - ha più esperienza di noi, ma ovviamente non è "noi", quindi non sa , probabilmente, cosa davvero ci piacerebbe fare.
Capita anche che, presa una determinata strada (magari consigliataci), ci rendiamo conto - come il bimbo del romanzo - che non sia la strada giusta. Però, per paura, magari per vergogna, non diciamo nulla. Così, finiamo per soffrire in silenzio. Preferiamo tenerci tutto dentro, non parlare pur di non dare un dispiacere ai nostri genitori. Perché - sebbene molti la pensino diversamente - un figlio (o una figlia) non vorrebbe mai deludere il proprio padre (o la madre). Anzi, di solito, vorrebbe che il proprio padre fosse orgoglioso di lui, soddisfatto delle sue scelte, dei traguardi che ha raggiunto.
Ma non bisogna dimenticare che, allo stesso tempo, anche i genitori vogliono, in fondo, soltanto la felicità dei figli. E per questo "bene", a volte - come noi - sbagliano anche loro.
Sbagliare è lecito e può benissimo avvenire da entrambi le parti. Sbagliano i figli, sbagliano i padri. Ma c'è sempre una soluzione. Basta parlarsi, dirsi chiaramente come stanno le cose e cercare di rimediare.
Quel che conta davvero è fare ciò che ci rende felici e appagati. Cosa potrebbe voler di più un genitore per il proprio figlio? L'importante è capire ciò che si vuole veramente. C'è chi lo capisce prima, chi dopo, ma tutti - prima o poi - troviamo la nostra strada. E non bisogna mai pensare che se si sbaglia si è "sbagliati". Assolutamente no: sbagliare significa aver provato. Significa aver messo in discussione se stessi per cercare il proprio posto nel mondo. Fa parte dei rischi e spesso è inevitabile. Tiziano Terzani (giornalista e scrittore) disse: "Finirai per trovarla la via, se prima avrai il coraggio di perderti". È proprio così: ci vuole coraggio anche per sbagliare. E soltanto sbagliando, e rendendosene conto, si può capire davvero cosa sia importante per noi.
È capitato ai nostri genitori un tempo, capita a noi ora, e capiterà ai nostri figli.
Non è questo il problema. L'importante è stare bene con se stessi e seguire il proprio cuore.
Come ci insegna don Camillo: sempre per amore, mai per forza!
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